Stati Uniti d’Europa. L’insegnamento della pandemia: avere una politica sanitaria comunitaria

  Se qualcuno aveva dubbi ora può toglierseli: la pandemia da Coronavirus ha insegnato che avere un coordinamento sanitario comunitario è stato essenziale.
I vaccini sono stati acquistati dalla Commissione europea, e distribuiti a tutti i 27 paesi comunitari, il che non era scontato, considerato che nella fase iniziale solo 4 Paesi avevano stabilito acquisti comuni di vaccini e non si registrava la volontà di aiuto reciproco.
Ora il passo successivo: la Commissione europea ha proposto una “Unione europea della salute”, per rendere più efficace l’azione della Agenzia europea del farmaco (EMA) e del Centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie (ECDC) e per predisporre un regolamento in grado di affrontare le emergenze sanitarie. Queste iniziative dovrebbero essere concluse entro la fine dell’anno.
I vari Paesi europei sono restii al trasferimento di competenze sanitarie, ma la domanda sorge spontanea: a cosa servono le 27 Agenzie del farmaco dei singoli Stati, che possono agire autonomamente, quando c’è una Agenzia europea ad hoc? Lo stesso dicasi per il controllo e la prevenzione delle malattie, appurato che i virus non hanno nozione dei confini.
Un segnale positivo è arrivato dall’aumento dello stanziamento del bilancio sanitario europeo da 413 milioni a 5,1 miliardi di euro.
Insomma, si rende sempre più necessario e urgente trasferire una serie di competenze sanitarie in sede comunitaria, superando le miopie nazionalistiche, inconcludenti e dannose, e considerando l’Ue come entità unica per rendere più efficace l’attività per la prevenzione e la cura delle malattie.
 

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