RSA. Sentenza Corte Costituzionale e questioni irrisolte

 Ci siamo gia’ occupati della recente sentenza della Corte Costituzionale in materia di RSA n. 296 del 2012 che ritiene legittima la legge Regionale Toscana n. 66/2008 e dei possibili futuri scenari che la sentenza apre.
In questo approfondimento esamineremo soprattutto le questioni – pur fondamentali e poste dal TAR Toscana nella ordinanza di rimessione alla Corte  – che la sentenza non affronta.

LIVEAS o LEA?

Nella controversa sentenza n. 296/2012 il Giudice delle Leggi esclude, in buona sostanza, che l’art. 3 comma 2 ter del d.lgs.109/98 costituisca un LIVEAS, livello essenziale delle prestazioni relative ai servizi sociali a favore degli anziani non autosufficienti e delle altre categorie protette ivi indicate, dichiarando non fondata la questione della legittimita’ costituzionale dell’art. 14, comma 2, lett. c), LR Toscana n. 66 del 2008 in relazione all’art. 117, comma 2, lett. m, Cost. Ad avviso della Corte, non avendo sinora il legislatore nazionale individuato puntualmente i livelli essenziali di assistenza sociale ben puo’ una legge regionale individuare propri criteri di partecipazione alla spesa, tanto piu’ che la materia dell’assistenza sociale e’, alla luce del nuovo Titolo V della Costituzione, materia di competenza residuale regionale.
La sentenza, tuttavia, non tratta le questioni di legittimita’ costituzionale evidenziate dal TAR Toscana nella propria ordinanza di rimessione, che restano pertanto ancora pendenti e attuali.
Ad avviso di chi scrive la questione doveva essere affrontata non gia’ verificando se l’art. 3 comma 2 ter d.lgs.109/98 “fosse” un LIVEAS in sé per sé, quanto piuttosto se la previsione contenuta all’art. 14, comma 2, lett. c), l.r. Toscana del 18 dicembre 2008, n. 66 violasse l’art. 117, comma 2 lett m) in considerazione del fatto che le prestazioni oggetto del procedimento sono livelli essenziali di assistenza e conseguentemente le norme volte a garantirne il diritto di accesso (art. 3 comma 2 ter d.lgs. 109/98), sono anch’esse di esclusiva competenza statale in quanto finalizzate al godimento della prestazione stessa – non gia’ dunque come LIVEAS in proprio, quanto invece come norme strumentali a garantire l’effettivo godimento di un livello essenziale di assistenza sanitaria.
Il quesito, se correttamente inteso da parte della Corte Costituzionale, avrebbe portato a una pronuncia diversa. Si tratta, rispetto alla sentenza in esame, di un profilo di legittimita’ costituzionale diverso e ulteriore rispetto a quello trattato.
Che la Corte abbia inteso pronunciarsi unicamente sulla possibilita’ che l’art. 3 comma 2 ter sia un LIVEAS – escludendola – e’ dato che emerge in tutta evidenza dalla lettura della pronuncia stessa, che mai cita, ne’ applica, ne’ valuta il DPCM 29 novembre 2001 e la conseguente normativa indicante i criteri di finanziamento delle prestazioni ivi contemplate. Parimenti assenti nella ricostruzione della Corte sono il DPCM 14 febbraio 2001 e l’art. 3-septies, co. 5 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502. Cio’ del resto emerge, nel corpo della stessa pronuncia, dalla sintesi fatta in merito al quesito posto dal TAR Toscana nella propria ordinanza di rimessione, come premessa alle considerazioni in diritto: “La prospettazione del giudice remittente si fonda sul presupposto secondo il quale la disposizione dell’art. 3, comma 2 ter, del decreto legislativo n. 109 del 1992, costituisce, anche in assenza del previsto D.P.C.M., un livello essenziale delle prestazioni relative ai servizi sociali a favore degli anziani non autosufficienti e delle altre categorie protette ivi indicate”.
Orbene, e’ indiscusso che le prestazioni socio-sanitarie di degenza in RSA siano Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria, in quanto espressamente indicate come tali nel decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 novembre 2001 “Definizione dei Livelli essenziali di assistenza”, allegato 1, lettera H, le cui norme sono cogenti in base all’articolo 54 della legge 289/2002, entrambi successivi alla novella costituzionale (la stessa Corte Costituzionale si e’ piu’ volte pronunciata, nell’ultimo decennio, sulla funzione del DPCM 29 novembre 2001 rispetto alla definizione dei Livelli essenziali di assistenza ai sensi dell’articolo 117, comma 2 lettera m). Il legislatore nazionale ha dunque chiarito che la materia ricade nei LEA, in virtù dell’art. 54 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, che a sua volta rinvia al D.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502. Quest’ultimo, all’art. 3-septies, co. 5, dispone che «le prestazioni sociosanitarie a elevata integrazione sanitaria sono assicurate dalle aziende sanitarie e comprese nei livelli essenziali di assistenza sanitaria […]».
Cio’ premesso, e data la natura di LEA della prestazione in oggetto, puo’ davvero la Regione normare contrariamente alle previsioni di legislazione nazionale in punto di ripartizione dei costi (e modalita’ di individuazione dei redditi sui quali computare tale ripartizione) che devono essere sostenuti per la prestazione stessa?
Ovverosia, è possibile che una prestazione sia elevata al rango di LEA – e cioe’ sia una prestazione il cui godimento deve essere garantito a tutti i destinatari sull’intero territorio nazionale – senza al contempo conferire pari rango “strumentale” alle norme che ne determinano le modalita’ di ripartizione economica? E consentire alla Regione di derogare ai criteri di finanziamento stabiliti per i LEA non equivale a snaturare il livello di prestazione che lo Stato ritiene essenziale?
Occorre chiedersi dove si collocano le norme che indicano la ripartizione dei costi dei LEA, a chi ne competa l’emanazione e quale sia il confine fra la competenza normativa dello Stato e quella regionale in merito.

I precedenti della Corte costituzionale

La stessa Corte Costituzionale e’ ben consapevole di quanto spesso le questioni relative alla competenza in materia di determinazione dei livelli essenziali di assistenza sociale si intreccino alle esigenze di contenimento della spesa pubblica. Ciò non di meno il giudice delle leggi non nutre alcun dubbio sul fatto che tale competenza sia statale: cosi’, nella sentenza n. 203/2008 la Corte ha statuito che per assicurare l’uniformita’ delle prestazioni che rientrano nei LEA spetta allo Stato determinare la ripartizione dei costi relativi a tali prestazioni tra il servizio sanitario nazionale e gli assistiti. La pronuncia aveva ad oggetto la previsione statale di un ticket fisso uguale in tutto il territorio nazionale per prestazioni comprese nei LEA (qui il riferimento era all’Allegato 1, punto 2. E del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29 novembre 2001), il cui scopo era duplice: da un lato evitare l’aumento incontrollato della spesa sanitaria, dall’altro non rendere più o meno onerose nelle diverse Regioni prestazioni che si collocano nella fascia delle prestazioni minime indispensabili per assicurare a tutti i cittadini il godimento del diritto alla salute. Secondo la Corte la scelta dell’imposizione di ticket, piuttosto che di altro metodo di compartecipazione, spetta comunque all’indirizzo politico dello Stato, né potrebbe essere diversamente, giacché non sarebbe ammissibile che l‘offerta concreta di una prestazione sanitaria rientrante nei LEA si presenti in modo diverso nelle varie Regioni. La Corte precisa, comunque, che dell’offerta concreta fanno parte non solo la qualità e quantità delle prestazioni che devono essere assicurate sul territorio, ma anche le soglie di accesso, dal punto di vista economico, dei cittadini alla loro fruizione.
Il tema del finanziamento dei livelli essenziali, e dunque della “essenzialita’” delle norme sulle determinazioni economiche che al livello essenziale accedono e’ stato anche piu’ di recente affrontato dalla Corte nella sentenza n. 121 del 2010 in cui, a fronte del lamentato mancato coinvolgimento regionale nell’istituzione di un fondo ad hoc per sostenere interventi di edilizia residenziale pubblica, la Corte chiarisce che – nonostante la parziale mancata attuazione dell’art. 119 Cost, la cui conseguenza e’ che le regioni non possiedono risorse sufficienti a fronteggiare in modo adeguato il carico di tutele che su di loro grava – cionondimeno “la fissazione dello Stato dei livelli essenziali – se deve avere valore normativo reale senza ridursi a mera proclamazione – non e’ in ogni caso priva di conseguenze sulla finanza regionale giacche’ l’obbligo di dare attuazione alle prescrizioni normative statali sui livelli minimi implica la necessita’ che le singole regioni provvedano a stanziare le somme necessarie, traendo le risorse dai propri bilanci, subendo cosi’ le conseguenze di scelte unilaterali dello Stato”. 
Mutatis mutandis, il tema centrale e’ lo stesso: chi decide le modalita’ e i criteri di finanziamento dei livelli essenziali? Lo Stato.
Persino in una pronuncia relativa a prestazioni di mera assistenza sociale la Corte non da’ rilevanza al fatto che i LIVEAS non siano stati disciplinati dal legislatore. Secondo l’orientamento offerto con sentenza n. 10 del 2010, infatti, ogni volta che lo Stato fissa una disciplina rivolta a proteggere situazioni di debolezza della persona umana, dette norme, «benché incidano sulla materia dei servizi sociali e di assistenza, di competenza residuale regionale, devono essere ricondotte, anche alla luce dei principi fondamentali degli art. 2 e 3, comma 2, Cost., nell’ambito dell’art. 38 Cost. e dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. Il complesso di tali norme costituzionali permette infatti di ricondurre tra i “diritti sociali”, di cui deve farsi carico il legislatore nazionale, il diritto a conseguire le prestazioni imprescindibili per alleviare situazioni di estremo bisogno […] e di affermare il dovere dello Stato di stabilirne le caratteristiche qualitative e quantitative, nel caso in cui la mancanza di una tale previsione possa pregiudicarlo, e la finalità di garantire il nucleo irriducibile di questo diritto fondamentale legittima un intervento dello Stato […]». In altre parole, supera questa carenza e “recupera” la data prestazione all’art. 117 comma 2 lett. m) per il tramite di altre norme costituzionali. La Corte qualifica come “dovere” dello Stato e “competenza dello Stato” la materia in questione: “spetta al legislatore statale sia l’esercizio del potere regolamentare (art. 117, sesto comma, Cost.), sia la fissazione della disciplina di dettaglio” (Corte Costituzionale, sentenza n. 10 del 2010).
In tale pronuncia, volutamente la Corte ignora la mancata determinazione dei LIVEAS, e correttamente colloca la normativa “economica” sulla social card come funzionale all’assicurazione di un livello uniforme di godimento dei diritti sociali e politici: “In particolare la ratio di tale titolo di competenza e l’esigenza di tutela dei diritti primari che e destinato a soddisfare consentono di ritenere che esso puo’ rappresentare la base giuridica anche della previsione e della diretta erogazione di una determinata provvidenza, oltre che della fissazione del livello strutturale e qualitativo di una data prestazione, al fine di assicurare piu’ compiutamente il soddisfacimento dell’interesse ritenuto meritevole di tutela, quando cio’ sia reso imprescindibile come nella specie da peculiari circostanze e situazioni, quale una fase di congiuntura economica eccezionalmente negativa. Un tale intervento dello stato e’ ammissibile se necessario per assicurare effettiva tutela dei soggetti che vantino un diritto fondamentale che, in quanto strettamente inerente alla tutela del nucleo irrinunciabile della dignita’ della persona umana, deve poter essere garantito su tutto il territorio nazionale in modo uniforme, appropriato e tempestivo, mediante una regolamentazione coerente e congrua rispetto a tale scopo. In applicazione di tali principi va osservato che una normativa posta a protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana benche’ incida sulla materia dei servizi sociali e di assistenza di competenza residuale regionale deve essere ricostruita anche alla luce dei principi fondamentali del artt 2 e 3 comma 2, art 38 e 117 lett m” (Relazione sulla giurisprudenza della Corte Costituzionale 2010, p. 242).
Dato allora che la prestazione resa e’ un LEA, e l’art. 3 comma 2 ter d.lgs. 109/98 nel determinare le modalita’ di individuazione del reddito con riferimento al solo assistito e’ norma strumentale e accessoria al godimento effettivo di un LEA, ne consegue la illegittimita’ costituzionale dell’art. 14 LR Toscana 66/08.
Cambia, in buona sostanza, “l’etichettatura” della casella costituzionale dell’art. 117 Cost. nella quale inserire la previsione: non gia’ una prestazione di assistenza sociale ex se ma una previsione che in quanto accessoria ad un LEA e’ di esclusiva competenza statale, come piu’ volte e in vari ambiti ribadito dalla Corte stessa.
Un diverso quesito, quindi, incentrato non sulle “materie” astrattamente ricostruibili (le “caselle di etichettatura” di cui al secondo comma dell’art. 117) ma sugli “interessi”, sulla loro natura e effettivo godimento: una valutazione degli artt. 14 LR Toscana 66/08 e 3, comma 2 ter d.lgs. 109/98 in questa ottica costituzionale porterebbe ad avviso della difesa la Corte a modificare la propria prospettiva.

La mancata emanazione del DPCM

La corretta “riconduzione” dell’articolo 3 comma 2 ter d.lgs. 109/98 “fuori” dai LIVEAS e “dentro” i LEA, in quanto norma strumentale e accessoria all’effettivo godimento di questi ultimi, consente poi di superare l’opinione della Corte secondo la quale la mancata adozione del DPCM ivi previsto comporti una espansione del potere normativo regionale in attesa della determinazione da parte dello Stato dei LIVEAS.
Assume, infatti, la Corte che non vi sia stata determinazione di dettaglio delle prestazioni cui la norma di cui all’art. 3 comma 2 ter fa riferimento, di talché esisterebbe il principio ma non i “casi” cui applicarlo.
Ma così non è.
Le singole prestazioni alle quali applicare il criterio di individuazione del reddito del solo assistito, al contrario, sono espressamente e puntualmente individuate dal DPCM 29 novembre 2001, tanto care al legislatore che le ha poste fra quelle rientranti nei LEA.
E anche qualora non si ritenesse tale criterio dettagliatamente descrittivo del “reddito del solo assistito”, indi per cui si ritenesse comunque necessario un ulteriore atto regolamentare statale di dettaglio, cionondimeno la materia rientrerebbe, come detto, nella esclusiva competenza dello stato (art. 117, comma 6 Cost.) che le regioni non potrebbero superare, dovendo comunque allinearsi alla previsione “soglia” statale contenuta nella norma originaria. Potrebbero – al piu’ – adottare criteri piu’ favorevoli all’utente, mai deteriori, come autorevolmente condiviso dal Consiglio di Stato in numerose e recenti pronunce.

RSA e diritto alla salute. Questioni di legittimita’ non affrontate

E anche a voler ulteriormente modificare l’etichettatura costituzionale delle prestazioni in oggetto, che indubbiamente possono rientrare anche nella materia della tutela della salute ex art. 117, comma 3, Cost, si prospettano comunque profili di illegittimita’ costituzionale che necessitano di vaglio, ad oggi non avvenuto.
L’art. 117, comma 3 Cost. conferisce infatti competenza statale nella determinazione dei principi fondamentali in tema di diritto alla salute, ampliando dunque ulteriormente la portata dei livelli essenziali sul piano delle “funzioni”, essendo il diritto alla salute diritto soggettivo e a prestazione sociale. Quando, dunque, la tutela della salute si interseca con quella dei LEA, come nel caso di specie, la competenza dello Stato attiene altresi’ alla regolamentazione degli aspetti organizzativi nella sfera “salute”, con l’obiettivo non di sostituirsi alle Regioni, ma di fissare i principi che garantiscono l’uniformità dei criteri, anche logistici e di effettivo accesso alle prestazioni.
Da una parte, dunque, la questione delle modalita’ e dei criteri di ripartizione dei costi delle prestazioni, ivi compresa la determinazione dei redditi computabili, inequivocabilmente attiene a “principi fondamentali” la cui determinazione e’ riservata alla legislazione dello Stato (si veda la sentenza della Corte Costituzionale 134/2006 che specifica come la disciplina statale possa essere di tipo “attuativo” quando si occupi di fissare degli standards per l’erogazione dei servizi che garantiscano una maggiore effettività del diritto alla salute). Ne consegue che anche laddove non si ritenesse tale legislazione – nello specifico l’art. 3 comma 2 ter d.lgs. 109/98 – sufficientemente dettagliata, la riserva di legge statale imporrebbe alle regioni il rispetto della normativa quadro.
Dall’altra, e’ evidente come la compressione economica dell’accesso alle prestazioni da parte dei cittadini ne leda il diritto alla “salute”, “concetto” che la giurisprudenza costituzionale ha ricostruito in modo assai ampio, ben prima della riforma del Titolo V della Costituzione, nel quale ha fatto rientrare l’accessibilita’ agli edifici per i soggetti portatori di handicap (sentenza n. 167/1999) sul presupposto che i portatori di handicap abbiano diritto ad una normale vita di relazione, e che “la socializzazione debba essere considerata un elemento essenziale per la salute di tali soggetti sì da assumere una funzione sostanzialmente terapeutica assimilabile alle pratiche di cura e riabilitazione’.” (Cfr. Luciani, I livelli essenziali delle prestazioni fra Stato e Regioni, in AA.VV., Diritto alla salute tra uniformità e differenziazione, Giappichelli, 2011); il diritto al consenso informato (sentenza n. 438/2008) e ancor prima ampliando il concetto di assistenza sanitaria come “complesso degli interventi positivi per la tutela e promozione della salute umana” (sentenza n. 382/1999). Si e’ trattato, in estrema sintesi, di una operazione ermeneutica nella quale la Corte ha “voluto” – correttamente – enfatizzare la peculiare posizione assegnata dalla Costituzione al diritto fondamentale alla salute, diritto che e’ una “precondizione” all’effettivo godimento di tutti gli altri diritti della persona di rango costituzionale e non, e che “ha assunto una configurazione legislativa che ne rispecchia la vocazione espansiva” (sentenza n. 309/1999).
Se il diritto alla salute e’ preordinato al godimento degli altri diritti della persona umana, indubbiamente l’effettivo accesso alle prestazioni socio-sanitarie (LEA in particolare) e’ a sua volta preordinato al diritto alla salute stesso. E ovviamente, anche in relazione all’art. 117, comma 3, Cost. l’aspetto più delicato e’ il bilanciamento con l’equilibrio finanziario, a sua volta funzionale alla protezione della salute. Cionondimeno, in tale operazione di bilanciamento si dovrà tenere indenne il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana (si vedano le sentt. Corte Costituzionale nn. 109/1999, 267/1998, 247/1992); di conseguenza la sostenibilità finanziaria delle prestazioni in rapporto al diritto alla salute comportera’, affinché sia impostata in termini di garanzia del principio di uguaglianza, che il contenuto minimo delle prestazioni essenziali afferenti alla tutela della salute sia assicurato a tutti a prescindere dallo status di ciascuno, dalle condizioni sociali ed economiche.
Sulla base di questa premessa e’ evidente come la previsione di cui all’art. 3, comma 2 ter, d.lgs. 109/98 costituisca principio fondamentale per la fruizione della prestazione sanitaria (non a caso si rivolge ai soggetti anziani non autosufficienti e gravemente disabili), e normativa quadro i cui limiti non devono e non possono essere superati dalla normativa regionale. Anche qui, l’assenza del successivo DPCM comporta per le regioni la possibilita’ di normare in melius per l’utenza la materia, non gia’ in peius.

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Da ultimo, ulteriore profilo di illegittimita’ costituzionale della norma in questione, non affrontato dalla Corte, benche’ di estremo rilievo nella materia in esame, si pone in relazione agli artt. 2, 3, 10, 11, 32, 38 e 117, comma 1.
La sentenza n. 296/2012 della Corte Costituzionale non prende in considerazione alcuna le norme di diritto internazionale pattizio e consuetudinario che vincolano l’Italia e che rilevano direttamente, in quanto tutelano la salute e vietano ogni forma di discriminazione; segnatamente ci riferiamo agli articoli 14 e 17 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, nonche’ all’art. 1 del Protocollo n. 12 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali e agli artt. 13 e 152 del Trattato CE; ne’ la sentenza prende in considerazione la Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilita’ (approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006 e ratificata dall’Italia con legge 18/2009, e ratificata dall’Unione Europea il 23 dicembre 2010) che “si basa sulla valorizzazione della dignità intrinseca, dell’autonomia individuale e dell’indipendenza della persona disabile (v. l’articolo 3 che impone agli Stati aderenti un dovere di solidarietà nei confronti dei disabili, in linea con i principi costituzionali di uguaglianza e di tutela della dignità della persona, che nel settore specifico rendono doveroso valorizzare il disabile di per sé, come soggetto autonomo, a prescindere dal contesto familiare in cui è collocato, anche se ciò può comportare un aggravio economico per gli enti pubblici)” (Consiglio di Stato, sentenza n. 5158 2011; si vedano anche Consiglio di Stato, sentenze n. nn. 4071, 4077, 4085 del 10 luglio 2012; Consiglio di Stato, sentenza n. 4594 del 23 agosto 2012). Tale principio è stato piu’ volte richiamato dal Consiglio di Stato e, tra l’altro, essendo stato recepito nell’ordinamento interno, “deve considerarsi norma interposta (in virtù dell’art. 117, co. 1, Cost., che vincola le leggi statali e regionali al rispetto, tra le altre fonti, degli obblighi internazionali), da leggersi sistematicamente con gli artt. 2, 3 e 38 della Costituzione” (Candido, Il costo della non autosufficienza. Profili di incostituzionalità della recente legge lombarda n. 2/2012 sulle rette delle Residenze Sanitarie Assistite, in Forum dei Quaderni Costituzionali, giugno 2012).
Anche il Consiglio di Stato nella sentenza n. 1607/11 escludeva possibili censure di costituzionalita’ dell’art. 3 comma 2 ter D.lgs 109/98 – per violazione degli art. 3, 32, 38 della Costituzione, nonche’ per violazione di trattato internazionale – solo qualora interpretato nel senso della sua immediata’ precettivita’, mentre se a tale interpretazione non si accedesse, si incorrerebbe nella violazione della Convenzione di New York. Significativamente, infatti, “nel preambolo della Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità, si evidenzia che la disabilità grave è un importante fattore di impoverimento delle famiglie, sottolineando il fatto che la maggior parte delle persone con disabilità vive in condizioni di povertà, ed a questo proposito riconoscendo l’urgente necessità di affrontare l’impatto negativo della povertà sulle persone con disabilità” (Trebeschi, Dopo quelle Sentenze della Corte Costituzionale). Nel suo articolato poi la Convenzione impone precisi obblighi agli Stati contraenti, di immediato rilievo per quanto qui concerne. All’articolo 4, comma 1, gli Stati Parti “si impegnano: (a) ad adottare tutte le misure legislative, amministrative e di altra natura adeguate ad attuare i diritti riconosciuti nella presente Convenzione; (b) ad adottare tutte le misure, incluse quelle legislative, idonee a modificare o ad abrogare qualsiasi legge, regolamento, consuetudine e pratica vigente che costituisca una discriminazione nei confronti di persone con disabilità”; (c) a tener conto della protezione e della promozione dei diritti umani delle persone con disabilità in tutte le politiche e in tutti i programmi; […] (d) ad astenersi dall’intraprendere ogni atto o pratica che sia in contrasto con la presente Convenzione ed a garantire che le autorità pubbliche e le istituzioni agiscano in conformità con la presente Convenzione“; al comma 2 che “Con riferimento ai diritti economici,sociali e culturali, ogni Stato Parte si impegna a prendere misure, sino al massimo delle risorse di cui dispone e, ove necessario, nel quadro della cooperazione internazionale, al fine di conseguire progressivamente la piena realizzazione di tali diritti, senza pregiudizio per gli obblighi contenuti nella presente Convenzione che siano immediatamente applicabili in conformità al diritto internazionale”; all’articolo 19, lettera (b), gli Stati Parti “assicurano che le persone con disabilità abbiano accesso ad una serie di servizi a domicilio o residenziali e ad altri servizi sociali di sostegno,compresa l’assistenza personale necessaria per consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione”; all’articolo 28, comma 1, lettera (b), gli Stati Parti adottano misure per “garantire l’accesso delle persone con disabilità, in particolare delle donne e delle minori con disabilità nonché delle persone anziane con disabilità, ai programmi di protezione sociale ed a quelli di riduzione della povertà”.
La Corte Costituzionale stessa, del resto, si e’ recentissimamente pronunciata, con sentenza n. 236 del 2012, sulla illegittimita’ di una norma regionale discriminatoria nei confronti delle persone disabili – in violazione del principio di eguaglianza garantito dall’art. 3 Cost. e dell’art. 117, primo comma Cost. – perché limitativa della libertà di scelta della cura per i pazienti disabili che necessitano l’erogazione di prestazioni riabilitative a domicilio, ponendo grande attenzione alle esigenze delle persone disabili gravi e al loro diritto: “Ancora, occorre osservare che l’art. 3 Cost. risulta violato pure in relazione al principio di uguaglianza, in quanto la normativa impugnata incide concretamente in peius sulle sole persone disabili, quali destinatarie di terapie riabilitative domiciliari. Il divieto posto dalla legge impugnata concerne, infatti, le sole prestazioni di riabilitazione da erogarsi a domicilio. Pertanto, gli effetti restrittivi della normativa impugnata ricadono principalmente sui soggetti più deboli, perché colpiscono prevalentemente i disabili gravi. Risulta così violato il principio di uguaglianza, garantito dall’art. 3 Cost., che trova, in riferimento alle persone disabili, ulteriore riconoscimento nella citata Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sulle persone con disabilità, cui ha aderito anche l’Unione europea (Decisione del Consiglio n. 2010/48/CE, del 26 novembre 2009, relativa alla conclusione, da parte della Comunità europea, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità), e che pertanto vincola l’ordinamento italiano con le caratteristiche proprie del diritto dell’Unione europea, limitatamente agli ambiti di competenza dell’Unione medesima, mentre al di fuori di tali competenze costituisce un obbligo internazionale, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost.
Orbene, l’articolo 3 comma 2 ter d.lgs. 109/98 assolve anche la funzione di tutelare i disabili gravi e gli anziani non autosufficienti e indirettamente le loro famiglie prevedendo espressamente, con il principio dell’evidenziazione del reddito del solo assistito, che queste, già gravate moralmente ed economicamente dal peso della disabilità dei loro congiunti, non venissero chiamate a sostenerne ulteriori costi.
Delle due l’una, allora.
O l’art. 14, comma 2 della LR Toscana e’ illegittimo poiche’ violando l’art. 3 comma 2 ter d.lgs. 109/98 viola altresi’ un trattato internazionale, le norme ivi contenute internazionali generalmente riconosciute nonche’ le norme costituzionali che a tale trattato riconoscono rango normativo superiore, oppure – accedendo all’interpretazione che la Corte da’ dell’art. 3 comma 2 ter d.lgs. 109/98 – sara’ quest’ultimo ad essere costituzionalmente illegittimo per identici motivi.
In entrambi i casi si assiste infatti ad una discriminazione di disabili gravi e anziani non autosufficienti nella misura in cui per le prestazioni residenziali – e dunque nelle situazioni piu’ gravi clinicamente o socialmente, nonche’ economicamente piu’ gravose – il reddito si computa tenendo in conto anche dei redditi personali dei parenti entro il primo grado e dei redditi non imponibili a fini IRPEF (nel caso della regione Toscana), quando invece per tutte le altre prestazioni fornite a disabili e anziani il reddito degli stessi soggetti si calcolera’ secondo i criteri ISEE.
In entrambi i casi si avalla una disparità di trattamento economico, a fronte dei diritti fondamentali dei cittadini anziani e disabili gravi alla salute e all’assistenza, che il nostro ordinamento non deve tollerare.

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Ad avviso di chi scrive non solo la sentenza 296 del 2012 Corte Cost. non risolve le questioni di legittimita’ costituzionale relative alla normativa Toscana in materia di determinazione del reddito per la degenza in RSA, ma contiene un ragionamento, in se’, viziato da tre gravi errori.

Il mostro a due teste

In primo luogo la sentenza, affrontando la questione solo con riferimento ai LIVEAS e mai ai LEA, “divide” la prestazione sociosanitaria di inserimento in RSA in “socio” e “sanitario”, implicitamente creando un “mostro a due teste” disciplinate diversamente e finanziate diversamente, che si ritroverebbero insieme solo nell’espressione linguistica “sociosanitario” (oltre che nel soggetto che tali prestazioni deve ricevere).
Orbene, l’intento del legislatore che negli ultimi decenni ha costruito un apparato normativo “socio-sanitario” era l’integrazione effettiva dei servizi sanitari e sociali in un unico servizio sociosanitario, poiche’ i bisogni che queste prestazioni soddisfano richiedono la presenza di entrambe le componenti, per cui esiste la distinzione in prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sociale, prestazioni sociali a rilevanza sanitaria. L’intento era evitare quindi la parcellizzazione delle competenze, dei servizi e dei bisogni riconoscendo, correttamente, la difficolta’ di scomporre le singole componenti ora sociali ora sanitarie.
Quel che e’ accaduto invece e’ che la regione Toscana ha disciplinato la partecipazione economica ad una prestazione sociosanitaria di inserimento in RSA “trattandola” come se fosse un qualsiasi intervento di assistenza sociale.
Senza approfondirne in questa sede la differenza fra LEA e LIVEAS la Corte e’ “caduta in un grave errore non distinguendo tra il già esistente diritto degli anziani non autosufficienti alle prestazioni socio-sanitarie (articolo 32 della Costituzione) normate nei LEA dal DPCM 29 novembre 2001 (dove, per quanto riguarda le prestazioni rese a livello residenziale, è stabilito che il 50% del costo sia a carico del Servizio Sanitario e l’altro 50% a carico “dell’utente o del Comune”) e il diritto delle persone in situazioni di disagio sociale alle prestazioni socio-assistenziali (articolo 38 della Costituzione), i cosiddetti LIVEAS , al contrario mai definiti e quindi non ancora normati.)” ( Zinelli, Le distruttive e discriminatorie sentenze della Consulta sulla compartecipazione al costo delle prestazioni residenziali per gli anziani non autosufficienti).

Le confliggenti finalita’ dell’art. 3 comma 2 ter

La Corte ritiene inoltre che l’art. 3, comma 2 ter d.lgs. 109/98 contempli due finalita’ fra loro confliggenti, ovverosia da un lato l’evidenziazione della situazione economica del solo assistito ricoverato presso una RSA, dall’altro il favore per la permanenza dell’assistito presso il nucleo familiare di appartenenza: “le due descritte finalità possono, almeno parzialmente, divergere tra loro, dal momento che la previsione di una compartecipazione ai costi delle prestazioni di tipo residenziale, da parte dei familiari, può costituire un incentivo indiretto che contribuisce a favorire la permanenza dell’anziano presso il proprio nucleo familiare”, come a dire che l’inserimento in RSA “possa essere disincentivato (senza tenere in alcuna considerazione le sue condizioni di gravità, lo stato della sua rete famigliare e del suo ambiente domestico) tramite un inasprimento degli impegni economici suoi […] o dei suoi famigliari” (Zinelli, cit.)
Si tratta di una lettura invero decisamente parziale della norma, in chiave – esclusiva – di contenimento della spesa pubblica, senza riguardo alcuno alle priorita’ di cura e tutela della persona.
In realta’ i due principi non sono affatto in contraddizione fra di loro “dato che non sempre la gravità dei soggetti e le situazioni famigliari e ambientali consentono l’erogazione delle necessarie prestazioni al domicilio degli assistiti” e che le prestazioni residenziali vengono rese (o richieste) quando la permanenza presso il proprio nucleo familiare non e’ piu’ possibile, per la necessita’ di assistenza h24, piuttosto che per l’impossibilita’ dei familiari di prestare un’assistenza h24, o ancora l’ingente spesa che una assistenza h24 fatta da una badante comporterebbe, che l’anziano non puo’ permettersi. Di tal che’ l’assistenza agli anziani, nella assenza dell’intervento pubblico, e’ fatta di badanti a nero e “dell’apporto dei famigliari, il cosiddetto welfare invisibile finora convenientemente inteso come solidarietà familiare e quindi gratuito anziché come il primo livello di genuina sussidiarietà da remunerare” (Zinelli, cit. supra).
In questo modo, il diritto alla salute, condizionato alla disponibilita’ di risorse, si trasforma in un non-diritto. Se un anziano non autosufficiente che percepisce 1.000 euro al mese dovra’ pagarne 1.500 di quota sociale, non potendoselo permettere, decidera’ di non usufruire del servizio, rinunciando ad un proprio diritto perche’ economicamente insostenibile.

La paralisi del sistema di riparto delle competenze previsto dall’art. 117, comma 2, lett. m) in materia di LIVEAS

Ad avviso della Corte, ancora, la scelta della Regione Toscana di normare in contraddizione con l’art. 3 comma 3 ter d.lgs. 109/98 e’ corretta, in via transitoria, stante la mancata determinazione dei LIVEAS a livello statale. Si tratterebbe di una scelta sì “difforme” rispetto al quadro normativo nazionale, ma cionondimeno resa necessaria dall’inerzia dello Stato: i costi della retta devono essere sostenuti da Stato e Regioni ma, visto che questi non hanno mai provveduto a convocare l’apposita Conferenza Stato-Regioni per definire i LIVEAS, risulta impossibile stabilirne il finanziamento.
Dunque – aggiungiamo – i LIVEAS non sono mai stati determinati per volere stesso delle Regioni, come emerge dalla lettura sinottica della sentenza in commento unitamente alla pronuncia n. 297 del 2012: “entrambe le decisioni sono concordi nell’assegnare un ruolo centrale alla Conferenza unificata Stato Regioni Autonomie locali di cui all’art. 8 D.Lgs 28.8.1997, n. 281. Se una necessaria intesa è imposta dalla sentenza 297/2012 per qualsiasi riforma della disciplina statale dell’ISEE che voglia imporsi sulla legislazione regionale quale livello essenziale ex art. 117 co. 2 lett. m), è dall’inerzia di tale organismo, che la sentenza 296/2012 fa discendere l’inapplicabilità dell’art. 3 co.2 ter D.Lgs 109/1998 e la possibilità per la Regione Toscana di adottare, in via transitoria, una disciplina difforme” (Trebeschi, Residenze sanitarie assistenziali, Quale destino per anziani e disabili dopo la sentenza della Corte Costituzionale).
Il meccanismo cosi’ delineato consentirebbe quindi alla Conferenza Stato Regioni di paralizzare l’iniziativa legislativa statale in materia, ledendo intollerabilmente una sua “prerogativa” costituzionale.

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Dalla inerzia dello Stato discenderebbe infine una ulteriore giustificazione dell’intervento regionale.
La Corte sostiene la propria scelta anche sulla base del riconoscimento delle difficoltà delle Regioni a finanziare le prestazioni sociali dopo i tagli governativi ai Fondi nazionali, che ancor piu’ avallerebbe la “necessita’” di legiferare in materia “in via transitoria e in attesa della definizione dei livelli essenziali di assistenza sociale (LIVEAS) e del loro relativo finanziamento”. L’ assenza di un’organica disciplina dei LIVEAS troverebbe “indiretta conferma” “dalle progressive riduzioni degli stanziamenti relativi al Fondo per le non autosufficienze, istituito dall’art. 1, comma 1264, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), che hanno comportato, per le Regioni, la necessità di intervenire al fine di rendere compatibili tali riduzioni con l’esigenza di garantire le prestazioni sociali in oggetto al più ampio numero possibile di anziani non autosufficienti, in attesa della determinazione dei LIVEAS”.
Si tratta di una singolare interpretazione (giustificazione) politica, ex post: la regione Toscana ha cosi’ normato (o meglio vi e’ stata costretta) visto l’azzeramento del Fondo per le non autosufficienze. Ebbene, avventurandosi in previsioni politiche che non le competono la Corte ha trascurato il fatto che la legge Toscana e’ datata 18 dicembre 2008, e che il Fondo per le non autosufficienze era stato finanziato con stanziamenti di 300 milioni per il 2008, 400 milioni per il 2009 e ulteriori 400 milioni per il 2010.
Alla data di emanazione della legge regionale, dunque, il fondo era finanziato e fu incrementato per l’anno successivo. Solo negli anni 2011 e 2012 e’ stato azzerato, per poi essere nuovamente finanziato per il 2013 per l’importo di 275 milioni (Zinelli, cit. supra).
A meno che non si vogliano insinuare chiromantiche predizioni regionali, la Toscana ha normato con tutt’altre motivazioni da quelle indicate dalla Corte, e le giustificazioni da questa addotte rivelano una malcelata fretta di “archiviare il problema”: “La vera ragione di tutto questo […] sta nell’inganno della costituzione dei Fondi Regionali per la Non Autosufficienza da parte [della regione Toscana] nei quali sono state fatte confluire, in aggiunta alle risorse derivanti dal Fondo nazionale per la non autosufficienza e dalla fiscalità generale regionale (IRPEF e IRAP), le quote storiche dei rispettivi Fondi Sanitari Regionali che prima finanziavano (come d’obbligo ai sensi del DPCM 29/11/2001 sui LEA) i c.d. programmi delle non autosufficienze. I nuovi Fondi Regionali per la Non Autosufficienza così costituiti (e gravemente senza una finalizzazione vincolante) hanno visto gradualmente congelarsi la quota di finanziamento da parte dei Servizi Sanitari Regionali a scapito di una maggiore quota proveniente dalla fiscalità generale regionale (gli utenti pagano così tre volte le prestazioni: con la tassazione nazionale, regionale e con le rette) allo scopo di ridurre la spesa sanitaria per i servizi per gli anziani e conservare il triste (visti i risultati) palmarès di una Sanità regionale dell’eccellenza. Da qui le due leggi regionali mirate a confermare una sempre maggiore partecipazione degli utenti e dei famigliari al finanziamento dei servizi” (Zinelli, cit. supra).

Gli scenari che si aprono all’indomani della sentenza n. 296 del 2012

La sensazione complessiva dopo la lettura della sentenza della Corte e’ che lasci tutte le parti insoddisfatte.
Ben comprendiamo che si tratta di una pronuncia che risente fortemente del grave periodo di inflessione economica, per cui tenta di “serrare le fila” intorno alla finanza degli enti locali, come si legge nella sentenza stessa, che richiama le difese della Regione: “Queste scelte regionali sono state motivate esclusivamente da motivi di sostenibilità finanziaria, accresciuti dalla costante riduzione dei fondi destinati alle politiche sociali e sanitarie, operata dalle leggi finanziarie e di stabilità degli ultimi anni”, eppure e’ una pronuncia che non risolve ne’ i quesiti di legittimita’ costituzionale sollevati dal Tribunale amministrativo per la Toscana, ne’ il problema dei comuni e delle famiglie. Ne escono perdenti tutti: al degente verra’ richiesto il pagamento di somme di cui non dispone, poiche’ computate in modo fittizio aggiungendovi i redditi dei propri familiari; il Comune non potra’ incassare somme che il degente non ha.