Liberta’ di morire o liberta’ di vivere?
Proponiamo un articolo di Annapaola Laldi su eutanasia pubblicato nella rubrica La Pulce nell’orecchio (clicca qui).
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Fra le colline toscane verso la fine della seconda guerra mondiale -un monastero semidiroccato suggerisce a Hana, un’infermiera dal contingente britannico, di far sostare qui un ferito torturato dalle ustioni che hanno sfigurato e leso tutto il suo corpo, compresa la capacita’ di dire chi e’ e da dove viene.
E cosi’, nella pur precaria tregua ai dolori che la quiete di questo rifugio gli consente, “il paziente inglese”, che inglese non e’ e nemmeno smemorato, con il poco fiato dei suoi polmoni riarsi, puo’ narrare alla giovane donna, che lo assiste, la storia dell’ intraprendente giovanotto che e’ stato il cartografo ungherese Laszlo de Almasy, le sue scoperte archeo-geologiche nel Sahara, al servizio della Royal Geographic Society, il suo amore appassionato e ricambiato, concluso tragicamente, per la moglie di un altro esploratore …
Il racconto e’ finito. La vita, la parte decisiva della sua vita, e’ stata rivissuta, passo per passo, nella narrazione. Adesso tutto appare in cristallina chiarezza. Di tutto e’ stata resa giustizia. Non resta altro da dire. Non ci sono piu’ parole per questa vita. Solo uno sguardo fermo e dolce mentre la mano intorpidita rovescia la piccola scatola di cartone, spingendo le fiale di morfina che vi restano verso Hana, che sta preparando la consueta iniezione di calmante. E neppure la donna ha parole. I suoi occhi che interrogano negli occhi limpidi dell’uomo, un pianto irrefrenabile -unica risposta per dire: ho capito. Le mani che aprono le altre fiale. E solo allora l’uomo parla: una unica parola – grazie.
Ecco: per quanto mi riguarda, e’ solo cosi’ che posso immaginarmi una cosa del genere -come un estremo supremo scambio d’amore. Dove ognuno -chi chiede e chi risponde- mantiene la propria totale responsabilita’ di fronte all’altra persona, alla propria coscienza, e, per chi resta qui, anche, se richiesto, di fronte alla societa’. E da cui, si capisce, esula ogni generalizzazione cosi’ come ogni legislazione. Ma bisogna dire subito che pure chi risponde di no alla richiesta di aiutare una persona a morire, una responsabilita’ se l’assume, e non e’ detto che sia meno grande di chi vi risponda di si’. Tanto complessa e sorprendente e’ la vita -e quindi anche la morte che ne fa serissima, inscindibilissima parte integrante.
Al di la’ della reazione personale immediata, che ciascuno puo’ avere di fronte a un simile pensiero (“Si’, lo farei” oppure: “Mai e poi mai!”), la materia, proprio perche’ molto delicata, non si puo’ eludere. Ma, come affrontarla? Con in pugno la scimitarra dei pre-giudizi, non importa se religiosi o filosofici, che provocano subito un’immediata lotta di potere?
O, piuttosto, a mani nude, con la sola consapevolezza della nostra comune fragilita’ umana?
Converra’ lanciare roboanti anatemi, cioe’ maledizioni, contro coloro che non la pensano come noi, svalutando quindi la loro umanita’, oppure dire le nostre ragioni sottovoce per renderci possibile l’ascolto delle ragioni, forse opposte, degli altri, ma che scaturiscono, esattamente come le nostre, da una seria esperienza della vita?
Perche’, anche in questo campo -a maggior ragione, in questo campo cosi’ delicato- non portiamo quanto abbiamo appreso certamente in altri settori, cioe’ che quanto rassicura noi puo’ essere fonte di insicurezza per altre persone, e viceversa? E perche’, dunque, non accettare che ci siano persone che si sentono rassicurate dall’idea di poter prendere congedo dalla vita quando essa non sembri loro piu’ degna di tale nome, e che magari proprio da cio’ possono trarre la forza per continuare a vivere?
Un esempio del potere vivificante di questa liberta’ ci viene da uno degli ultimi romanzi dello scrittore tedesco Hans Fallada, “Ciascuno muore solo”. Otto e Anna Quangel, i due coniugi protagonisti di questa storia, che si svolge negli anni della guerra hitleriana, vengono arrestati e condannati alla ghigliottina per alto tradimento. A ciascuno dei due, il loro vicino di casa, il vecchio consigliere di tribunale Fromm (in tedesco “fromm” significa pio, devoto), riesce a consegnare, a rischio della propria vita, una fialetta di cianuro di potassio. Ma proprio questo veleno portera’ ai due anziani coniugi, ormai separati per sempre in carceri diverse, il coraggio di vivere il proprio angusto presente, momento per momento, come una loro libera scelta -fino a che la morte verra’, diciamo cosi’, da se’.
“E’ un romanzo.”, si dira’, “La realta’ e’ diversa”. Ne siamo proprio sicuri? Il fatto che Fallada, uomo dalla vita grandemente travagliata, abbia pensato piu’ volte al suicidio, ci incoraggia a ipotizzare che in questi due personaggi egli abbia voluto testimoniare qualcosa che conosceva direttamente. Ma anche se egli si fosse “inventato” questo apparente paradosso della possibilita’ di darsi la morte che genera voglia di vivere, esso sarebbe pur sempre un’invenzione della mente di un essere umano, e quindi un patrimonio dell’umanita’.
D’altra parte, come e’ possibile trattare questo argomento dalle implicazioni cosi’ intime e delicate in modo diretto, senza darsi in pasto agli altri, senza, per usare un’immagine evangelica, “dare le perle ai porci” -coi porci (cioe’ coloro che non capiscono e non rispettano la delicatezza della cosa) che poi si rivoltano e ci azzannano? Forse davvero, in un caso del genere, la “finzione” artistica e’ l’unica possibilita’ di dirsi senza farsi sbranare (e, forse, di ascoltare senza essere presi dalla voglia di sbranare). Ed ecco allora che bisognerebbe fare molta attenzione ai suicidi che si trovano nei racconti dei grandi scrittori che riescono a portare in luce le pieghe piu’ recondite dell’animo umano.
E’ pur vero pero’ che se una persona accetta di mettersi in gioco su questo e trova un interlocutore attento e rispettoso, la ricchezza che ne scaturisce e’ inimmaginabile, e, alla fine, anche qui, parlando della possibilita’ di darsi la morte, si puo’ finire con l’approfondire il senso della vita.
E’ quanto accade nella conversazione fra Krishnamurti e Alain Naude’ (l’Interrogante) intitolata proprio “Il suicidio”, che, per gentile concessione della casa editrice Astrolabio-Ubaldini , possiamo leggere qui direttamente e integralmente (vedi allegato).
La prima scoperta che vi si fa e’ che questa materia non ammette teorizzazioni. La risposta valida non e’ quella ipotetica, ma esclusivamente quella agita nel confronto diretto con la realta’ -con “cio’ che e'” come dice Krishnamurti. “Se qualcuno e’ ammalato, ammalato di cancro senza speranza, o e’ diventato completamente vecchio: qual e’ la cosa piu’ intelligente da fare, non per un semplice osservatore come me, ma per il medico, la moglie o la figlia?”. Oppure anche: “Un uomo che si butta giu’ da un ponte”, egli osserva, “non sta a chiedere: ‘Mi suiciderei?. Lo sta facendo; e’ finito. Mentre noi, seduti in una casa tranquilla o in un laboratorio stiamo a chiederci se quest’uomo si suiciderebbe o no: tutto cio’ non ha significato”.
Ma allora, una domanda sul suicidio non si puo’ fare? Si’ che si deve fare, dice Krishnamurti, “ma bisogna scoprire che cosa c’e’ dietro, che cosa spinge colui che fa la domanda, che cosa gli fa desiderare di suicidarsi”. E, nell’indagare in questa direzione, potremmo scoprire come il desiderio di un futuro suicidio riveli un suicidio gia’ consumato nell’intimo, perche’ ci si e’ isolati nell’ostinazione, nell’avidita’ di potere e di prestigio, in una religione o in un’ideologia, perche’ si e’ tirato su un muro di immagini -immagini di se stessi, del proprio ambiente, della propria religione- per difenderci dal fluire della vita. Ma, cosi’ facendo, siamo diventati ottusi, abbiamo perso l’intelligenza, cioe’ la sensibilita’ e la prontezza del corpo e della mente di fronteggiare “cio’ che e'”, la realta’ vera, di attimo in attimo, ragion per cui, quando la vita, prima o poi fara’ giustizia dei nostri muri e delle nostre immagini protettive, ci sembrera’ di non avere piu’ vie d’uscita -tranne il suicidio.
E se scoprissimo che le cose stanno effettivamente cosi’, che, cioe’, la nostra vita si snoda in un solco di abitudini e tradizioni sulla cui effettiva validita’ non abbiamo mai riflettuto seriamente; se ci accorgessimo che stiamo davvero seguendo, senza accorgercene, un pifferaio magico che ci porta a danzare sull’orlo di un precipizio…?
“SCOSTATEVENE IMMEDIATAMENTE”, suggerisce Krishnamurti. Diventare consapevoli della natura distruttiva di cio’ che facciamo e smettere subito di vivere in quel modo, e’ lo stesso atto di intelligenza che ci fa scartare la macchina che sta per investirci.
Ma a questo punto mi accorgo che possiamo dare un’ulteriore formulazione alla questione: considerato che la nostra morte non si puo’ delegare ad altri perche’ comunque a morire siamo noi, proprio noi, per quale motivo accettiamo di delegare la nostra vita ad altri, perche’ non viviamo da subito direttamente, in prima persona? E allora: che cosa e’ segretamente in gioco quando parliamo del suicidio? La liberazione DALLA vita o la liberazione DELLA vita? La rinuncia alla vita o la riappropriazione della vita? Una fuga cieca in una terra di nessuno o un pellegrinaggio nella profondita’ della nostra coscienza a scoprire noi stessi, la nostra inviolabile essenza che aspetta solo di essere riconosciuta e onorata?
NOTE
1. “Il paziente inglese” e’ un film di ANTHONY MINGHELLA del 1996.
2. La conversazione “Il suicidio” e’ contenuta in KRISHNAMURTI, “L’uomo alla svolta”, Ubaldini editore, Roma 1971, pp.49-56. Che l'”Interrogante” sia il pianista sudafricano Alain Naude’ l’ho trovato, con altri particolari su questo ciclo di conversazioni, in MARY LUTYENS, “La vita e la morte di Krishnamurti”, Ubaldini editore, Roma 1971 (p.135-143).
JIDDU KRISHNAMURTHI, nato a Madapanalle, fra Madras e Bangalore -India- il 12 maggio 1895, mori’ a Ojai, in California, il 12 febbraio 1986. Non e’ facile dire chi e’ (stato) Krishnamurti. E’ una persona senz’altro enigmatica, che per una sessantina di anni ha percorso il mondo dall’India all’Europa alle Americhe intessendo, con chi lo andava ad ascoltare, un dialogo profondo sulla vita, l’intelligenza come sensibilita’, la liberta’. L’unico modo per farsene un’idea e’ leggere i suoi scritti e le sue conversazioni che in Italia sono per lo piu’ pubblicate da Astrolabio-Ubaldini (clicca qui). Per i testi in lingua originale (inglese) un riferimento e’ clicca qui.
3. “Ognuno muore solo” (Einaudi, Torino 1995) fu scritto di getto nel 1946. HANS FALLADA, il cui vero nome era Rudolf Ditzen, nacque a Greifswald (Pomerania) il 21 luglio 1893 e mori’ a Berlino est il 5 febbraio 1947. Ebbe una vita travagliata, fece uso fin da giovane di alcool e morfina e fu tentato piu’ volte di suicidarsi; per motivi diversi passo’, a piu’ riprese, alcuni anni in prigione. Molti furono anche i tentativi di disintossicarsi, ma tutti andarono a vuoto. A proposito del romanzo mi pare giusto dare qualche altra informazione sulla trama del romanzo e inserire qualche breve citazione.
La vittoria della Germania sulla Francia, nel 1940, porta il lutto nella casa di Otto e Anna Quangel; il loro unico figlio e’ caduto sul campo di battaglia. Allora, il tranquillo caporeparto falegname decide di sferrare la sua personale guerra al nazismo, diffondendo nei luoghi piu’ disparati delle semplici cartoline postali -una o due alla settimana- su cui e’ scritta sostanzialmente la stessa cosa: “Madre! Il Führer mi ha assassinato mio figlio..Madre! Il Führer uccidera’ anche i tuoi figli..”. Ne scrive, in due anni, 276 (quasi tutte consegnate alla polizia da chi le ha rinvenute), finche’ il commissario di polizia Escherich lo individua e lo arresta con la moglie.
Condannati alla ghigliottina e detenuti in carceri diverse, Anna e Otto ricevono dal loro vicino di casa la fialetta di cianuro di potassio che li rende liberi. Anna, dopo una breve lotta con se stessa, decide di distruggere la fiala; Otto, invece, la conserva, ma per tutti e due la vita si trasforma: adesso, pur essendo in attesa dell’esecuzione, si sentono liberi. Ecco come Fallada narra il cambiamento di Anna che finora era stata depressa, ribelle, a rischio di follia: “Con una mano si tiene aggrappata agli scuri, con l’altra spinge fuori la fialetta. La schiaccia contro il muro di pietra, sente che il collo sottile si rompe. Lascia cadere il veleno giu’ nel cortile. Quando e’ di nuovo nella cella, fiuta le sue dita: odorano forte di mandorle amare. Si lava le mani si corica. E’ stanca morta, come se fosse sfuggita a un grave pericolo. S’addormenta rapidamente. Dorme di un sonno profondo, senza sogni. Si sveglia fresca e riposata. Da quella notte il numero settantasei non si fece piu’ rimproverare. Era tranquilla, serena, laboriosa, gentile. Non pensava piu’ alla sua dura morte, pensava soltanto che doveva fare onore a Otto. …Non aveva piu’ paura. Mai piu’. L’aveva superata” (p. 554 ss.). La morte verra’ da se’, portata da una bomba che centra l’ala della prigione dove si trova Anna.
Di Otto, Fallada scrive che, grazie a quella piccola fiala, si sentiva libero, perche’ “la morte era in ogni ora con lui, gli era amica… Lui, Otto Quangel, .. non aveva bisogno di tormentarsi, perche’ portava con se’ la fine di ogni tormento. La sua era una buona vita. Egli l’amava. Non era nemmeno interamente sicuro che avrebbe adoperato la fialetta. Forse era meglio aspettare fino all’ultimo. Forse avrebbe ancora rivisto Anna…”. Cosi’, Otto Quangel si accorge di voler sapere come sarebbero andate le cose; anche come sarebbe stata la ghigliottina, perche’ “poteva ancora all’ultimo minuto giocargli un tiro, a quelli la’”. Ed e’ (quasi) quanto accade; perche’ la curiosita’ lo spinge cosi’ avanti da trovarsi disteso sul piano della ghigliottina e da attendere l’ordine del boia: “Adesso!” . “‘Adesso!’, penso’ anche lui, e i suoi denti stavano per mordere la fialetta di cianuro…poi qualcosa gli sollevo’ lo stomaco, un fiotto di vomito gli riempi la bocca e trascino’ con se’ la fialetta. “‘Oh Dio’, penso’, ‘ho aspettato troppo..'” (p.536 ss.).
4. La citazione completa dell’Evangelo (da Matteo, cap.7, vers.8), nella versione della CEI del 1971, e’: “Non date le cose sante ai cani, e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perche’ non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi”.
Allegato: KRISHNAMURTI, L’uomo alla svolta