Less more – Stiamo sacrificando ascolto e comprensione sull’altare della velocità

Inventata dall’architetto Ludwig Mies van der Rohe, tra i maestri del Movimento Moderno, l’espressione less is more racconta la rivolta alla prassi che vedeva nello sfarzo della complessità l’elemento essenziale per rendere grandi le opere.
Meno è meglio rappresenta perfettamente quell’idea di minimalismo che punta ad arrivare alla perfezione sottraendo il superfluo.
Una pratica che tuttavia richiede molta competenza perché non basta semplicemente togliere, occorre sapere cosa togliere.
Esercizio per nulla facile che però abbiamo accettato di fare in diverse circostanze, per esempio quando siamo stati colti collettivamente dalla smania di usare Twitter, mezzo che sin dal suo esordio obbliga alla sintesi in maniera categorica. È impossibile sforare, anche di un solo carattere. E i caratteri non sono certamente tanti, 140 all’inizio, il doppio dal 2017.

Imparare a riassumere pensieri e concetti è un utile allenamento per la nostra mente, ma soprattutto fa bene a chi legge che viene liberato dalla noia delle altrui prolissità. Perciò ritengo che questo fantastico strumento piaccia proprio per la sua immediatezza.
A chiunque vi si sia accostato per la prima volta sarà sembrato difficile, nei primi tempi, stringare frasi in uno spazio così piccolo poiché ogni taglio ci appare come un’alterazione ingiusta del significato del nostro messaggio. Salvo poi sperimentare che con l’esercizio possiamo dire meglio e in meno spazio.

Possiamo condividere con gli altri l’interezza del nostro messaggio con un minor numero di parole.
In origine, come dicevamo, furono i 140 caratteri, l’allora limite massimo di lunghezza per un Tweet che fu come una pietra miliare della necessità di ragionare in regime di estrema sintesi al tempo del web. Ma da lì in poi abbiamo partecipato a un costante gioco al ribasso sopraffatti dal vortice della comunicazione digitale, siamo arrivati oggi ai 15 secondi delle stories di Instagram.

Nel mezzo si è posta la celebre ricerca condotta anni fa da Microsoft secondo cui la capacità di mantenere ferma l’attenzione per un americano medio è quantificabile in 8 secondi, inferiore a quella di un pesce rosso.

Oggi le generazioni più giovani in particolare sono avvinte dalla roulette senza fine di TikTok, dove i like o gli skip, dunque il consenso o le nebbie dell’oblio, sono come una valanga che arriva dopo pochi secondi, certamente meno di otto.

Ci stiamo insomma consegnando alla fretta, sacrificando sull’altare della velocità le nostre capacità di ascolto e di comprensione, non solo di attenzione. Alcuni additano come primo responsabile di questa estrema volubilità di fruizione non solo le regole di ingaggio dei social, ma anche e soprattutto l’enorme quantità di contenuti a disposizione e dunque di scelta. Pensando alla profondità dei cataloghi delle piattaforme audiovisive o dei newsfeed dei social, certamente si tratta di un fattore rilevante. Ma è solo un mattoncino di uno scenario molto più articolato.

Arriviamo da oltre un anno di pandemia. Un lungo periodo in cui tra il remote working e il distanziamento, le relazioni interpersonali si sono intensificate sempre più nella dimensione digitale e sempre meno in quella fisica, con l’ulteriore depotenziamento di tutta quella parte di linguaggio che è non verbale: la postura del corpo, la posizione delle braccia, il sostenere lo sguardo altrui.
Oltre al non verbale stiamo mettendo sotto tiro anche il paraverbale, quindi il tono, l’intensità, le cadenze, uniformandole alle regole del gioco online.

Di questo passo, in un succedersi di strozzature di cui la nuova funzionalità introdotta da WhatsApp è solo l’ultima trovata, rimarrà quasi soltanto la parola e forse nemmeno ben espressa se la sottoponiamo a processo di riproduzione accelerata, una parte in verità assai ridotta della maestosa espressività dei linguaggi umani. Ma quanto poi effettivamente riusciamo a trarre dai contenuti con cui entriamo in contatto?

Ripensando alla faccenda del pesce rosso, i segnali non sono incoraggianti. Se da un lato sta crescendo l’analfabetismo funzionale, ossia l’incapacità di trarre conseguenze logiche dalle informazioni di cui entriamo in possesso, dall’altro l’effetto Flynn, ossia la valutazione che il quoziente intellettivo medio nel 20esimo secolo è cresciuto tra i 5 e i 25 punti da una generazione all’altra, pare essere un lontano ricordo.

Alle soglie del nuovo decennio, nel 2020, si è registrata infatti una diminuzione del QI medio tra lo 0,25 e il 0,50 per cento da una generazione all’altra.

L’inversione del trend al momento non significa che stiamo diventando più stupidi, soltanto che la nostra intelligenza non cresce più come un tempo.

Non sarà anche per come stiamo trattando il nostro linguaggio che è la forma che diamo all’interpretazione del mondo e ai nostri pensieri?

Riducendo sempre più il linguaggio e i tempi di fruizione dei contenuti che con esso modelliamo, stiamo progressivamente spostando il focus dal messaggio comunicato alla mera intenzione di comunicare indifferente a ciò che viene veicolato. Ma ci siamo chiesti dove porti l’eccesso di velocità quando è privo di orientamento? In questo caso ci porta a fermarci solo alla superficie del processo comunicativo, limitando a dismisura il suo potenziale che è fatto di rivelazione, di stupore, di meraviglia, di differenti punti di vista, di empatia, di curiosità, di attrazione…

In pratica tutti i fattori che rendono il comunicare un atto creativo e umano accadono in profondità, non a pelo d’acqua. Emozioni da vivere a 1x, semplicemente perché a 2x, 3x o 4x è estremamente improbabile che abbiano modo di attecchire nella mente e nel cuore dell’interlocutore. La velocità senza un orientamento è sì tempo risparmiato, ma una volta fatti i conti, siamo sicuri che non sia tempo perso del tutto?

(Oscar di Montigny, Linkiesta del 11/06/2021)

 

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