Lei uno chef? Con quel menù? Ma mi facci il piacere
In tempi di gruppi di autodifesa militante, è ormai ora di costituire anche il primo nucleo di lotta agli artisti in cucina. Lo slogan, romanamente parlando che tanto va di moda, potrebbe essere “arifatece magnà normale’’ mentre il programma del gruppo sarebbe incentrato sull’allontanamento dalla cucina di artisti e creativi frustrati, sperimentatori di improbabili commistioni fra il mondo animale e quello vegetale con qualche salto demenziale nel mondo minerale, trovando per questo sul menu roba tipo “ il fegato della foca vegana al sugo del basilico tendenzialmente bipolare glassato con i graffiti di oro e le schegge di roccia himalayana”.
E la prosa dei suddetti menu? Eccezionale, in un linguaggio demente e forse casuale, comunque ricco appunto di articoli e di dettagli precisi ma totalmente incomprensibili . Perché poi il menu deve eccedere sugli articoli come un calabrese doc eccede con il peperoncino? Mistero. Infatti può trovare per esempio “ IL ginocchio di gnu con LA foglia palissandrea incenerita AL tramonto sulLA crostata di granchio isterico” ma perchè? Non lo sapremo mai. Pesce veloce del Baltico dice il menù che contorno ha: torta di mais e poi servono polentà e baccalà, tanto per citare un genio che ha capito tutto di noi e non solo di noi. E invece ci si deve aggirare fra le portate come se si fosse all’orto botanico o a uno zoo safari, magari con carni di gnu canguri zebre e ippopotami.
A casa, artisti, per favore. Cucinatevi per voi. Ridateci le nostre nonne e i loro sapori al massimo a due o a tre incroci, secondo la vera arte che in tutte le cose è segnata dalla semplicità. Aglio olio e peperoncino. Pasta e fagioli. Cacio e pepe o appunto polenta e baccala. Mozzarella e pomodoro. Risi e bisi. Fritti leggeri e saporiti che sanno di fritto e non comportano il passaggio diretto dal ristorante alla tintoria. Fino a quando questi scarti di nouvelle cuisine rimasticate e maldigerite abuseranno di noi poveri semplici ragazzi di campagna, rincazzoniti dalla tv che ha scoperto un popolo che pensa solo a mangiare nonostante sia perennemente a dieta? Per certi artisti della mestola la popolarità passa necessariamente attraverso la nostra nausea. Ho ordinato qualche tempo fa, in preda a un momento di follia sperimentale, degli gnocchetti di seris – Dio forse sa cos’è – e patate con abbraccio di verza in letto di crema di formaggio o non so cos’altro fosse e altre componenti non meglio identificate. Non era un piatto. Sembrava più che altro un assembramento non autorizzato di ingredienti. Se fossimo stati all’aperto non sarebbe stato da escludere un intervento della Celere per disperderli.
Poi, dopo un’ora e mezza di attesa, arriva un piatto con sopra un pugno di qualcosa incartato in una foglia di cavolo. Dentro una decina di gnocchi annegati in un liquame bianco e insapore in cui si aggirava dello spaesato prosciutto, presumibilmente lasciatosi coinvolgere per spirito di gruppo dalla compagnia all’ultimo momento, visto che non era riuscito a farsi inserire nel menu.
Basta. A casa. Ghigliottina, direbbe Francesco Merlo. Cose semplici, magari da piola o da osteria – ah la bolognese Osteria del Tempo Perso – e poi non è la pietanza nei posti veri che fa il ristorante ma come la si cucina. Insomma pochi piatti ma che sono il numero 1.
Il turista però vuole quello, si dice. Gli zoccoli di bue mancino in salsa di lamponi albini con tracce di kamut depotenziato e foglie di orchidea islandese, sarebbe infatti il top da raccontare al bar o alle amiche. Se poi costa quanto una suite in un albergo la notte di Capodanno a Parigi, assolutamente meglio, e meglio anche se è consistente la distanza dal proprio gastroenterologo di fiducia.
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