Disturbi mentali: stress and the city
La vita di città ha un prezzo: predispone alle malattie psichiche. Osservando il cervello, i ricercatori riescono addirittura a stabilire se nell’infanzia una persona abbia vissuto in una grande città.
C’erano, e ci sono, molte buone ragioni per scappare dal paesello: libertà e cultura, migliori opportunità di lavoro, la possibilità di svagarsi al ristorante e al cinema, di gioire dell’anonimato, e persino qualche nanetto da giardino in meno. Metà dell’umanità vive nelle città; nel 1950 era ancora il 30%; verso il 2010 sarà il 70%, dicono alcune stime. Eppure, appare con sempre maggiore evidenza che gli abitanti delle metropoli scontino in salute il loro sistema di vita. Pur godendo di più igiene, di una migliore assistenza sanitaria e più benessere, si ammalano più spesso di disturbi mentali.
Secondo una metanalisi dell’anno scorso, in città il rischio di subire attacchi di panico è il 21% in più, e per le malattie affettive, come le depressioni, addirittura il 39%, rispetto a chi vive in campagna. Gli psichiatri sono poi abbastanza sicuri che nelle persone nate e vissute in città la schizofrenia colpisca il doppio -e l’epidemiologia indica addirittura un nesso con la dimensione: più grande è la città, più la mente è a rischio. Con una forte incidenza in età infantile.
In una pubblicazione pionieristica, l’équipe di Florian Lederbogen e Andreas Meyer-Lindenberg dell’Istituto centrale di salute psichica di Mannheim (D) ha indicato, per la prima volta, una specifica struttura cerebrale, che potrebbe dimostrare quello che finora era solo un dato statistico (Nature, vol. 474, pag. 498, 2011).
Per effettuare lo studio, i ricercatori hanno reclutato persone mentalmente sane che, in base alla provenienza, erano classificate di campagna, oppure abitanti di piccole città (se inferiori a 10.000) o di grandi città (oltre i 100.000). In laboratorio, i partecipanti dovevano cimentarsi con varie prove che li esponevano di proposito a stress sociologico. Distesi sul lettino dello scanner della risonanza magnetica funzionale (fMRI), dovevano risolvere problemi aritmetici impegnativi, mentre il responsabile dello studio cercava, attraverso le cuffie, di metterli sotto pressione con critiche puntute. Come previsto, durante l’esperimento in tutti i soggetti salivano i normali parametri fisiologici quali il battito cardiaco, la pressione del sangue, il livello dell’ormone cortisolo. Ma decisive sono state le immagini del tomografo, che mostravano come l’amigdala -centro della paura nel sistema limbico- fosse tanto più attiva, quanto più grande era la città di residenza dell’individuo. L’attività di un’altra struttura cerebrale, la corteccia cingolata anteriore perigenuale (pACC), si correlava con il periodo in cui il soggetto aveva vissuto in una grande città durante l’infanzia. L’infanzia in città aveva come conseguenza il fatto che il legame funzionale tra amigdala e pACC continuasse a essere meno evidente nei partecipanti ora divenuti adulti.
Scoperta “affascinante”, hanno commentato i neuroscienziati Daniel Kennedy e Ralph Adolphs del California Institute of Technology, giacché, da alcuni anni, è proprio questo circuito cerebrale disturbato a essere messo in relazione con un maggior rischio genetico per alcune malattie mentali. E anche l’amigdala appartiene, da qualche tempo, ai sospettati di diversi disturbi che probabilmente sono di origine sociale.
In che modo la città fa ammalare
Già nel 2009, Kennedy e Adolphs dimostrarono che l’amigdala è più attiva quando le persone sono troppo vicine l’una all’altra e non rispettano la normale distanza fisica. L’équipe di Kevin Bickart della Boston University ha recentemente riferito che il volume dell’amigdala è correlato alla dimensione e alla complessità delle reti sociali di una persona (Nature Neuroscience, vol.12, pag.163, 2011).
Inoltre, lo studio si aggiusta con altri risultati recenti, i quali dimostrano come i fattori sociali dell’ambiente siano rilevanti sotto l’aspetto psichiatrico. Così, il gruppo di lavoro di Mannheim legato a Meyer-Lindenberg ha mostrato che determinati circuiti cerebrali si attivano quando un individuo perde il lavoro oppure sta per separarsi o teme di perdere il suo status sociale. In questi casi a reagire è il legame tra amigdala e la parte di corteccia prefrontale che presiede alla cognizione sociale.
Il nuovo studio spiega dunque il modo in cui la città fa ammalare la gente? No, sarebbe esagerato, avvertono gli stessi autori: noi abbiamo solo trovato delle correlazioni neuronali, non il meccanismo causale. C’è anche da chiarire un altro aspetto relativo all’ormone dello stress, il cortisolo.
D’altra parte, i ricercatori di Mannheim hanno calcolato diversi possibili fattori di disturbo come l’istruzione, il reddito, lo stato dei rapporti, l’umore e l’entità del sostegno sociale. Potrebbe essere che nello studio pubblicato su Nature gli effetti nocivi della città siano addirittura sottovalutati. Anche perché i partecipanti all’esperimento erano soprattutto giovani studenti, che dovrebbero essere psichicamente più solidi della media della popolazione. In più, provenivano dalla pulita e benestante Germania, dove le differenze città-campagna sono meno accentuate che nei Paesi asiatici o sudamericani: in confronto a Mumbai o Shanghai, Monaco e Amburgo possono essere considerati due villaggi tranquilli.
Forse hanno ragione i commentatori Kennedy e Adolphs quando segnalano che le persone si differenziano molto in base a quanto si adattano alla vita di città: “Alcuni rifioriscono a New York, altri la scambierebbero con gioia con un’isola sperduta”. Ci sono ricerche che attestano quanto sia importante la sensazione d’avere in mano la propria vita. “Minacce sociali, perdita di controllo e subordinazione sono i maggiori candidati a indurre gli effetti dello stress da città”.
(articolo di Christian Weber per Sueddeutsche Zeitung, 24-06-2011. Traduzione di Rosa a Marca)