Cure palliative. Si ha paura della responsabilita’ del medico e della parola cannabis. Intervento al Senato
Di seguito l’intervento in dibattito generale della senatrice Donatella Poretti (Radicali-Pd) durante l’esame in Aula del ddl 1771 per garantire l’accesso alle cure palliative e alle terapie del dolore
Signor Presidente, questo suo accenno ai lavori mi sembra utile per avviare il mio intervento. Infatti, questo disegno di legge -che ricordo a tutti è uscito con un voto unanime dalla Camera dei deputati e, quindi, ritengo avesse ottime possibilità per vedere una corrispondente situazione di unanimità anche al Senato- ha però visto un iter che, secondo me, non ci fa onore come Parlamento.
Questo testo è stato assegnato alla Commissione sanità alla fine di settembre; tale Commissione si è evidentemente occupata, prevalentemente e ossessivamente, di un’unica questione, da settembre a dicembre, c’è stata un’indagine conoscitiva sulla pillola abortiva RU-486. Questo disegno di legge è stato pertanto accantonato; a dicembre l’abbiamo ripreso, fissato nottetempo il termine per gli emendamenti in Commissione, votati subito alla ripresa dei lavori, e ieri, l’ultimo atto – a mio avviso – di spregio alle istituzioni è stato che questo testo è uscito dalla Commissione alle ore 15,30 e alle ore 20 veniva fissato il termine per gli emendamenti per l’Aula. Io, che ho seguito i lavori in Commissione, ho visto in due giorni il testo cambiare radicalmente – non sempre in negativo, anche in positivo, ma comunque cambiare – in tutti gli articoli, ma non avevo il nuovo testo che è arrivato oggi in Aula; l’ho avuto soltanto ieri sera, alle ore 19, in Aula, quando dovevo intervenire sulla Relazione annuale del Ministro della giustizia. Pertanto, mentre ascoltavo il ministro Alfano, intervenivo e ascoltavo la sua replica, predisponevo gli emendamenti per l’Aula. Io che ho seguito tutto l’esame del provvedimento, dico fin da subito che avrei voluto proporre un emendamento per ripristinare l’articolo 10 così come uscito dalla Camera, che invece non troverete perché mi è sfuggito; è sfuggito a me che ho seguito i lavori in Commissione su questa materia dalla prima all’ultima seduta. Immagino dunque come possano intervenire nella discussione, o facendo uso degli altri strumenti che ha a disposizione il parlamentare (gli ordini del giorno, gli emendamenti), senatori che non hanno partecipato al dibattito in Commissione. Credo che nemmeno sapessero che ieri si fosse licenziato un testo e quindi non credo che ieri pomeriggio abbiano potuto presentare emendamenti.
Dico questo, poi, con una Commissione che non ha neppure svolto delle audizioni. Io stessa, che spesso le sollecito, non le ho richieste perché ritenevo che quel testo accolto all’unanimità dalla Camera non sarebbe stato stravolto dal Senato; gli interventi, invece, sono stati molti e forse allora qualche audizione sarebbe stata utile. Le uniche audizioni che sono state svolte (alle ore 8,30 della mattina) in Commissione sono state quelle di tecnici del Ministero della salute e di tecnici e funzionari del Dipartimento per le politiche antidroga.
Ora, è certo ottimo l’aver tenuto questo tipo di audizioni, di interlocuzione, ma credo che anche altre audizioni a questo punto sarebbero risultate utili. Lo dico riferendomi ad un particolare aspetto di questa legge, cioè la semplificazione della ricettabilità e della somministrazione dei farmaci antidolore e delle cure palliative anche a domicilio: quindi, chi e come può prescrivere, che è un punto nodale della diffusione, nella pratica, della possibilità di prescrivere per i medici. Abbiamo interpellato, ciascuno di noi, palliativisti e dottori che non conoscevamo per interpretare l’articolo 10 approvato dalla Camera e poi, alla fine, alle ore 15,30 di ieri, uscito dalla Commissione qui al Senato; ebbene, tecnici del settore che tutti i giorni hanno a che fare con queste leggi davano continuamente pareri differenti. Poi, magari, con dei colloqui, si riaccordavano, però che la materia non sia semplice credo che ci trovi tutti concordi, così il procedere ad interventi in cui si va a toccare un comma, una lettera di un testo unico sugli stupefacenti che a sua volta nel corso degli anni è stato modificato, crea una legge di difficile interpretazione.
Allora, io l’ho capita così (poi qualcuno mi smentirà e dirà invece che la mia interpretazione era sbagliata): secondo il testo della Camera tutti i medici, con qualsiasi tipo di ricettario (quello speciale per gli stupefacenti, quello rosso del Servizio sanitario nazionale e perfino quello bianco) potevano prescrivere perfino la morfina per via endovena, anche a domicilio. Certo, ci sono ricette che sono tracciabili: mi riferisco in particolare alla ricetta rossa e al ricettario speciale per gli stupefacenti. La ricetta bianca, invece, non è così tracciabile e allora la cautela che aveva introdotto la Camera era la seguente: il farmacista trattiene le ricette e poi le invia all’Ordine dei medici, da una parte, e all’ASL, dall’altra, per consentire di verificare se effettivamente un dato medico faccia “abuso” di ricette di morfina a domicilio, nel qual caso si potrebbero eseguire ulteriori controlli e verifiche.
Questo, a quello che ho capito io, era il testo della Camera. Quello che è uscito ieri pomeriggio alle ore 15,30 sinceramente non l’ho ancora ben capito, anche perché non ho avuto il tempo di rifare tutto quel giro di palliativisti e di esperti del settore che ne diano una corretta interpretazione. Mi pare di capire che si sia arrivati alla conclusione che la ricetta, oltre a quella speciale per stupefacenti, è anche quella rossa, cioè quella in carico al Servizio sanitario nazionale. Se così fosse si sarebbe fatto un passo indietro, perché non tutti i medici hanno il ricettario rosso e quello speciale. Vedo che già il Ministro mi fa segno di no con la manina: quindi, come vedete, siamo ancora qui a cercare di capire che cosa prevede questo testo, su cui ormai il termine per eventuali emendamenti è scaduto.
Quindi, mi affido al buon cuore, alla buona scienza del ministro Fazio, anche se non credo che un parlamentare si debba affidare e fidare di un Ministro, ma non perché io sono dell’opposizione e lui è della maggioranza, ma solo perché non credo sia questo il compito del legislatore, né tanto meno quello di fare leggi interpretabili; infatti, se il testo già è interpretabile qui, come era interpretabile in Commissione, mi immagino cosa potrà succedere quando la legge verrà pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Si aprirà un dibattito su chi interpreta questo testo e se lo fa correttamente. Chiudo questa parte che rappresenta una sorta di intervento a carattere generale su come si fanno le leggi. Vorrei che le leggi che si approvano fossero veramente più chiare; mi sembra peraltro che vi sia stato un intervento normativo per cui nell’ambito di una legge non si possono prevedere rimandi a diecimila altre leggi, magari sopprimendone un comma, una lettera o un articolo, perché in tal modo non ci si capisce davvero più niente.
Aggiungo, tra l’altro, che questo provvedimento, esaminato solo presso la Commissione sanità, in quanto dovrebbe interessare il diritto alla salute e la libertà di terapia dei cittadini, in realtà prevede una parte corposa che fa riferimento al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, vale a dire il Testo unico sugli stupefacenti. Non so se su questa materia, in qualità di componenti della Commissione sanità, eravamo sufficientemente competenti; forse sarebbe stato necessario anche il supporto della Commissione giustizia.
Per quale motivo poi in Italia siamo agli ultimi posti con riferimento alle terapie del dolore? È solo un problema culturale? Non credo che gli italiani provino piacere a soffrire, non soltanto nella fase terminale della loro vita, cosa che comporta terapie palliative, ma anche nei momenti gioiosi. È stato ricordato che il parto in Italia ancora avviene in maniera tribale, con le donne che urlano perché non possono essere assistite da interventi di analgesia. Questa continua a rimanere un miraggio, anche se non credo che le donne vogliano partorire con dolore, come recitava un testo antico: credo invece che il problema stia piuttosto nello stigma che viene messo su certe sostanze, per cui quando una sostanza finisce tra quelle proibite cui si fa riferimento nel Testo unico sugli stupefacenti, scatta un divieto che porta con sé una serie di conseguenze, a grappolo, dannose anche per usi diversi – in particolare quelli terapeutici – da quelli per i quali la sostanza era stata inserita nell’elenco del sostanze proibite.
È il problema di fondo delle tabelle contenute nel Testo unico sugli stupefacenti: se si vieta la sostanza, ma non l’uso della sostanza, nei fatti si mette lo stigma alla sostanza e se ne impedisce poi la diffusione, la promozione e quant’altro. Se questo è quanto avviene con la morfina, che perlomeno si chiama diversamente dall’eroina, anche se la pianta da cui hanno origine entrambe le sostanze è la stessa, è ancora più incredibile che ciò accada con la cannabis terapeutica. Utilizzare lo stesso termine forse non aiuta, per cui si potrebbe forse provare ad utilizzare il nome dei farmaci, quali il Sativex o il Bedrocan.
Nei fatti, l’avere origine da quella sostanza, da quella stessa pianta che esiste in natura e che si vieta per legge, porta con sé una serie di proibizioni dannosissime. Il fatto che questa nuova versione dell’articolo 10, di cui si stava parlando, suggerisca che il Ministero della salute per spostare una sostanza tra le varie categorie – quelle maggiormente proibite, quelle meno proibite o quelle proibite, ma alle quali viene riconosciuta un’attività farmacologica – debba sentire il Consiglio superiore della sanità – ed è giusto – ma, anziché sentire l’Istituto superiore di sanità, debba sentire il Dipartimento delle politiche antidroga, sia già di per sé un segnale davvero negativo.
Non credo, infatti, che il Ministero della salute operi a favore degli spacciatori, a meno che si abbia una mala visione del medico che spaccia farmaci o sostanze che creano dipendenze nei pazienti. Sulle dipendenze potremo poi intavolare un altro discorso, dal momento che si sentono rivolgere critiche perfino in merito a somministrazioni troppo prolungate di morfina o di altro perché in un malato terminale – non è ironico – possono creare una dipendenza. A parte il fatto che affermazioni così grottesche fanno venire i brividi o addirittura sorridere, credo che in questo punto risieda molto della problematica dell’argomento al nostro esame.
Quanto alla cannabis terapeutica o ai farmaci a base di principi attivi presenti nella pianta della cannabis, ne esistono molti per curare ed alleviare una serie di dolori importanti legati espressamente – faccio un breve elenco – alla terapia del dolore neuropatico, del dolore tumorale, dell’emicrania, della sindrome di Tourette, dei glioblastomi e dell’artrite reumatoide. Premetto che sono oltre 17.000 gli studi al riguardo; non si parla di gente che si fa uno spinello e alla fine sostiene che gli ha fatto passare il mal di testa, ma si parla di riviste scientifiche. Tengo ancora una volta a separare le cose e a sottolineare io stessa quanto spesso esse si possano intersecare. Secondo studi scientifici, riviste scientifiche riconosciute dalla comunità internazionale e oltre 17.000 studi, queste terapie aiutano e per le malattie che sto per elencarvi possono aversi delle ricadute positive attraverso i principi attivi della cannabis. Esse sono: malattie infiammatorie croniche intestinali (morbo di Crohn, colite ulcerosa); tumorali; lesioni midollari; malattie neurodegenerative (morbo di Alzheimer, corea di Huntington, morbo di Parkinson); epilessia; malattie autoimmuni (lupus eritematoso); sindromi ansioso-depressive; patologie cardiovascolari (ipertensione arteriosa, aterosclerosi); sindromi da astinenza nelle dipendenze da sostanze da abuso (alcool e fumo).
Ne aggiungo un’altra. Recenti studi hanno dimostrato l’utilità dell’applicazione dei derivati della cannabis nella cura dello stress post-traumatico che colpisce frequentemente i militari di ritorno dalle zone calde di guerra e che subiscono traumi per combattimenti ed attentati terroristici. Da qualche anno il Governo israeliano sta utilizzando questi principi per i propri militari, e credo che ciò sia utile a separare nuovamente gli usi diversi che possono
essere fatti di una sostanza che deriva da una pianta esistente in natura.
Gli studi compiuti ci sono di aiuto e ci riportano alla situazione italiana. Prima del 2007, tutto quello che riguardava la parola cannabis e i suoi derivati era contenuto nella tabella 1 della normativa sugli stupefacenti, e quindi meramente proibito. Nel 2007 l’allora ministro Livia Turco fece un’operazione davvero saggia, razionale – non saprei come definirla – logica. Decise che il cannabis delta-9-tetraidrocannabinolo (THC) dovesse essere inserito nella tabella 2. Gli studi stavano a testimoniare che aveva effettivamente una riconosciuta attività farmacologica. Dopodiché siamo in uno stato di limbo, per cui a quel principio è riconosciuta un’attività curativa medica, ma esso non viene prodotto in Italia, nel senso che nessuna azienda ha chiesto di fare la produzione. Nei fatti, quei pazienti che vogliono utilizzare farmaci a base di detto principio devono sentire il proprio medico, passare attraverso l’ASL, seguendo un iter burocratico davvero complicato e alla fine importarlo dall’estero.
Questo avviene per terapie che non durano più di due mesi. Faccio un esempio pratico: una persona va dal medico, avvia tutto questo iter, che va pure a buon fine, e si vede recapitare per due mesi a casa un farmaco, che costa sul mercato intorno ai 50 euro, ad un costo di circa 500-600 euro. Questo aggravio di spesa deriva semplicemente dai costi dell’importazione. In alcuni casi ci sono pazienti fortunati, pochissimi in Italia, che appartengono ad alcune ASL che hanno deciso di rimborsare tale farmaco; i meno fortunati si trovano invece, dopo un paio di volte, a desistere da questa pratica. Se per un farmaco che costa 50 euro devo spenderne 500 al mese diventa difficile e diventa ancor più difficile quando quella stessa sostanza la si trova all’angolo della strada ai soliti 50 euro.
Pensiamo, per esempio, al Bedrocan (che altro non è che la puntina della pianta della cannabis, e che è prodotto dal Ministero della sanità olandese): se io lo compro attraverso questa procedura mi costa 600 euro; se io quella stessa pianta la coltivo a casa finisco in carcere per coltivazione illegale di stupefacenti. Uno Stato che però mi spinge a fare ciò indotta dal bisogno economico (a fronte di un costo pari a zero dell’autoproduzione in casa, se si vuole acquistare la stessa sostanza attraverso le vie legali occorre spendere 600 euro al mese) non credo sia uno Stato che guarda al benessere dei cittadini e che tutela il diritto alla salute e la libertà terapeutica, ma uno Stato di tipo criminogeno, cioè che mi porta a commettere un reato, un illecito, in alcuni casi amministrativo. Se infatti, invece che coltivare tale sostanza, me la compro dallo spacciatore, allora vengo “solo” segnalata al prefetto per una contravvenzione.
Ho finito il tempo a mia disposizione e qui termino, appellandomi al Parlamento, anzitutto affinché siano rivisti, se possibile, i termini per la presentazione degli emendamenti, visto che non votiamo il disegno di legge oggi ma la prossima settimana, e poi per invitare tutti ad eliminare per davvero gli schemi ideologici: è assurdo vietare le sostanze, comporta solo effetti negativi sui pazienti; regolamentiamone l’uso.