Comunità Lgbtiq. Conoscerla per non emarginarla

Le persone Lgbt+ affrontano persistenti discriminazioni in molti settori. Il lockdown ha acuito queste disparità, perché ha colpito due ambiti particolarmente delicati per la comunità: salute mentale e sicurezza lavorativa.

La Legge Zan approvata alla Camera è un potenziale passo in avanti, ma non basta. Per raggiungere l’uguaglianza sostanziale servono politiche su misura, informate da dati affidabili e aggiornati.
Sappiamo, ad esempio, che la comunità Lgbt+ subisce più discriminazioni sul posto di lavoro. Siamo consapevoli che alcuni suoi membri – soprattutto gli adulti e anziani – sperimentano maggiori tassi di isolamento sociale, ragionevolmente peggiorati durante il lockdown. Lo sappiamo perché nella migliore delle ipotesi lo immaginiamo, e nella peggiore abbiamo le testimonianze.

 

Quello che non conosciamo sono i numeri. In Italia – e non solo da noi – gli strumenti ufficiali di raccolta dati includono raramente l’orientamento sessuale e l’identità di genere (SOGI).
Per altri potenziali fattori di discriminazione – come sesso, età, nazionalità – la raccolta dati è stata normalizzata e se ne riconosce l’inestimabile valore. Le informazioni sugli individui Lgbt+, invece, restano largamente invisibili. La Commissione Europea ha recentemente ammesso che «abbiamo meno dati sulle persone Lgbt+ rispetto ad altri gruppi della società».
Conoscere questi numeri è necessario. Ogni giorno, innumerevoli decisioni su norme e finanziamenti pubblici vengono prese sulla base di dati demografici. Poiché la maggioranza delle indagini statistiche non include indicazioni SOGI, spiega Human Rights Campaign, «le persone Lgbt+ sono sistematicamente tenute fuori da decisioni che hanno un potenziale salvavita».

 

Mentre tutti i governi mettono in campo investimenti e idee per la ripresa post-Covid, sappiamo pochissimo sull’impatto che la pandemia ha avuto sulle vite Lgbt+. Dei pochi studi disponibili, molti arrivano dagli Stati Uniti e sono svolti da centri di ricerca o associazioni pro-Lgbt+ invece che da istituti statistici nazionali. Tutti mostrano inequivocabilmente che la comunità Lgbt+ è stata sproporzionatamente affetta dalla crisi, sia in termini occupazionali che di salute mentale.
Per fare un esempio, abbiamo molti dati ufficiali a disposizione sulla situazione delle donne, e sappiamo che la maggioranza schiacciante di chi ha perso il lavoro in questo periodo è appunto donna. Dati simili sulla comunità Lgbt+ invece non ne abbiamo.

 

La stessa Helena Dalli, Commissaria europea per l’Uguaglianza, ha però riferito che il Covid ha colpito più duramente le persone Lgbt+:«la crisi ha colpito maggiormente la comunità Lgbt+. Alcuni suoi membri subiscono violenza domestica da parte di genitori o coinquilini omofobi. Altri si trovano in situazioni occupazionali difficili, ulteriormente aggravate dall’impatto della crisi».
I dati non servono solo in vista della ricostruzione post-Covid, ma anche per colmare le diseguaglianze preesistenti. Dovremmo equipaggiarci di statistiche ufficiali e inclusive riguardanti la salute mentale, i tassi di occupazione, i salari.

 

«Abbiamo bisogno di questi dati perché le persone Lgbt+ hanno disparità che sono state documentate per decenni», è l’appello di Brad Sears, ricercatore in ambito SOGI e fondatore del Williams Institute. «Se vogliamo parlare di benessere pubblico e includere tutti nella ripresa economica, abbiamo bisogno di informazioni anche sulla popolazione Lgbt+».
Anche quando le indicazioni SOGI sono incluse in sondaggi e censimenti, potrebbero non tenere sufficientemente conto della diversità di esperienze tra individui. I dati demografici, infatti, interpretano comunemente l’identità come singolare e fissa, considerando la comunità come un monolite. Molti studi – come questo – dimostrano che questo approccio è adatto alle persone Lgbt+.
Per quanto alcuni individui siano riluttanti nel fornire dati SOGI, l’esperienza dell’EU Lgbt Survey (2013) indica che molte persone Lgbt+ non trovano le domande difficili o indelicate, quando queste sono formulate correttamente. Per la privacy di tutti, ad ogni modo, i campi su orientamento sessuale e identità di genere potrebbero rimanere opzionali nelle indagini statistiche, lasciando agli individui la libertà di non compilarli. Non prevedere affatto questi spazi, invece, è un’opportunità persa.
Nell’ultimo decennio sono stati fatti alcuni progressi. Nel 2011, ad esempio, l’Istat ha condotto un questionario sui pregiudizi legati all’orientamento sessuale, e ora sta lavorando a un’indagine sulle discriminazioni lavorative – per partecipare, c’è tempo fino al 31 marzo 2020.
La necessità di raccogliere questi dati è destinata ad aumentare esponenzialmente, perché le società saranno sempre meno binarie. Un recente studio di Gallup, basato sulla popolazione statunitense, indica che un adulto su sei della Gen Z si identifica come Lgbt+. Tanto meglio, per tutti, avvantaggiarsi sui tempi.

(Carolina De Giorgi su Linkiesta del 02/04/2021)

 

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