Carestia in Africa e Yemen: ‘Morire di fame oggi, e’ morire per le conseguenze della guerra’

  
Rony Brauman, ex-presidente di Medécins sans Frontières, ha risposto alle domande dei lettori del quotidiano le Monde, lo scorso 28 marzo, in occasione di una giornata speciale sulla carestia in Sudan del Sud, Nigeria, Somalia e Yemen.
D. Si puo’ ancora morire di fame oggi? A cosa e’ dovuto?
R. Non e’ la quantita’ di cibo che e’ in questione, ma l’impossibilita’ di procurarselo. Morire di fame oggi, e’ morire per le conseguenze della guerra. Del resto, fino al XIX secolo, delle cause naturali potevano spiegare le carestie: siccita’ o malattie vegetali come la muffa, ma non e’ piu’ cosi’. Nei nostri giorni, tranne qualche rara situazione di estremo isolamento, sono le guerre, la presa in ostaggio delle popolazioni, le ragioni per cui si puo’ morire di fame. Per le guerre, gruppi di popolazioni sono isolati deliberatamente grazie a gruppi armati, ma anche per negligenza, e sono loro che soffrono la fame.
D. Le popolazioni toccate dalla carestia sono prese di mira per ragioni politiche, religiose o altro, o sono le vittime collaterali delle violenze che le circondano?
R. Le due situazioni esistono. In certi ambiti, alcune popolazioni sono punite e altre no, le popolazioni sono simmetricamente ricompensate per la loro lealta’ al potere, grazie all’aiuto internazionale. Si puo’ quindi avere una individuazione nei due sensi, per affamare o retribuire. Noi parliamo subito di strumentalizzazione, e’ cosi che puo’ funzionare. Al contrario, in altri ambiti, si tratta semplicemente di indifferenza ai danni causati dalla guerra, essendo l’obiettivo della vittoria militare la cosa piu’ importante su tutto.
D. Se i principali ostacoli sono i conflitti armati che colpiscono questi Paesi e bloccano gli aiuti umanitari, perche’ l’ONU non invia prima di tutto i caschi blu? Si tratta di una cattiva volonta’ o di una incapacita’ materiale?
R. Non e’ una cattiva volonta’ o una cattiva intenzione delle Nazioni Unite. Nel Sudan del Sud c’e un importante dispiegamento dei caschi blu che sta per essere rafforzato portandolo a 16.000 unita’. Ma non si tratta di un esercito destinato a combattere, ma di forze dislocate per cercare di dissuadere i gruppi armati perche’ non facciano violenze. I caschi blu non sono in grado di fare una guerra generalizzata contro i gruppi armati.
Cio’ che bisogna auspicare per questi Paesi, e’ una diminuzione della violenza molto piu’ che un presupposto uso virtuoso della violenza stessa.
D. Senza minimizzare la gravita’ della crisi umanitaria, quale credito si puo’ dare ai numeri annunciati dalle Nazioni Unite, sapendo che le loro agenzie non hanno che un accesso limitato alle zone specifiche e che il loro appello di fondi e’ fatto poco tempo dopo la dichiarazione di Donald Trump sui tagli del budget all’aiuto internazionale?
R. Io sono scettico come lei su questi numeri che, da una parte, mettono insieme delle realta’ umane ed economiche molto differenti, e dall’altra, si fondano su osservazioni molto limitate in virtu’ delle difficolta’ di mobilita’ in questi Paesi. Questi numeri tendono a mettere sullo stesso piano di spesa la carestia che e’ stata dimostrata e le situazioni di insicurezza alimentare che, pero’, l’una e l’altra chiamerebbero a reazioni molto diverse.
Trovo molto discutibile la scelta di parlare di 20 milioni di persone in preda o minacciate dalla carestia. Puo’ darsi che sia, come lei suggerisce, di fare pressione sulla nuova amministrazione americana allo scopo di rendere piu’ difficile il taglio di budget annunciato.
Penso che le Nazioni Unite ci debbano informare in modo piu’ preciso ed evitare i ripetuti appelli catastrofici, come ha fatto negli ultimi anni.
D. L’Arabia Saudita, grande amica degli interessi francesi, e’ parte pregnante nella guerra che affama lo Yemen. Non c’e’ niente da fare per contestare questa situazione che costa la vita delle persone?
R. Come lei, io sono profondamente turbato dalla compiacenza con la quale chiudiamo gli occhi sulle angherie dei nostri “alleati” sauditi. Essi sono, in effetti, gli artefici di una guerra ad oltranza fatta con le armi che a loro vengono notoriamente vendute da francesi e americani. Ecco una tipica questione che i dibattiti dell’elezione presidenziale dovrebbero far emergere e di fonte alle quale i candidati dovrebbero essere obbligati a prendere posizione.
D. Perche’ l’aiuto umanitario della comunita’ internazionale non permette di evitare questo tipo di crisi?
R. Una parte della crisi e’ evitata dall’aiuto, ma per definizione non si vede perche’ la crisi e’ evitata. D’altra parte, alcune regioni di questi Paesi in guerra sono inaccessibili a causa di una maggiore insicurezza. Alcuni elicotteri possono talvolta raggiungerle e depositare delle limitate quantita’ di viveri, come in Sudan del Sud. Questo non e’ trascurabile per coloro che ne beneficiano, ma e’ evidentemente troppo poco in rapporto all’ampiezza del problema.
D. L’aiuto umanitario e’ strumentalizzato? Se si’, perche’? Esso contribuisce alla situazione di crisi? Quale sara’ lo scenario per il futuro delle popolazioni senza aiuto internazionale?
R. L’aiuto umanitario e’ sempre strumentalizzato da una parte. Se non e’ considerato utile in un modo o nell’altro dal potere in vigore, esso non avrebbe nessuno spazio per essere diffuso. La questione e’ quindi di sapere se e’ piu’ utile alla popolazione colpita o al potere, ma non di sapere se esso e’ strumentalizzato o meno.
Mi pongo anche questa domanda che riguarda essenzialmente il Sudan del Sud, ma non sono in grado di rispondere. In assenza di una diagnostica definitiva, mi sembra preferibile scommettere sulla solidarieta’ umanitaria.
Per quanto riguarda gli altri Paesi evocati (Nigeria, Yemen, etc..) credo che l’aiuto d’urgenza vada realmente, soprattutto, alle popolazioni che non al potere.
Credo che per il Sudan del Sud, bisogna essere piu’ critici verso i belligeranti, cioe’ governo ed opposizione in armi entrambi, che si comportano come dei gangster di fronte alla loro popolazione, e le cui scorribande sono note e insufficientemente denunciate dalle diverse diplomazie. Siamo coscienti del fatto che l’aiuto non risolve queste crisi e che sono le popolazioni locali, le élite locali, che lo devono fare o meno. Ma il benestare non verra’ dall’esterno.
D. Io lavoro per il Programma alimentare mondiale (PAM) nella Repubblica Democratica del Congo, in Centrafrica e dintorni. Il costo della logistica del PAM e’ vertiginoso: importiamo, per esempio, del mais in Africa dagli Usa, sicuramente OGM, stipato in delle navi cargo dall’altra parte del mondo, e poi con dei camion. Non crede che sarebbe piu’ intelligente finanziare programmi legati allo sviluppo dell’agricoltura locale?
R. Non credo che bisogna opporre frontalmente fra di loro questi due modi di fare. Comprare derrate locali favorendo la produzione e’ evidentemente molto piu’ promettente e sostenibile che importare derrate da Paesi lontani, ma non e’ sempre possibile. I casi di cui discutiamo oggi ce lo mostrano. L’attivita’ del PAM, che consiste di portare aiuti alimentari in situazioni di penuria acuta, necessita di importanti dispiegamenti logistici, e’ inevitabile. Considerato questo, si tratta di una eccezione, la regola dovrebbe essere cio’ che lei indica. E’ necessario controllare che il PAM non sia il vettore di agro-business tipo Monsanto e che i suoi semi non trasformino i contadini in schiavi dell’agro-industria.
D. Il suo lavoro umanitario e’ indirizzato a non raggiungere il suo obiettivo di eradicare queste carestie se gli Stati non partecipano per proprio conto a delle soluzioni politiche?
R. Il lavoro umanitario mi sembra indirizzato a prendere in considerazione le conseguenze delle crisi, senza pretendere di trattare le cause. E’ la sua forza e il suo limite. A questo livello si nota che le carestie sono continuamente regredite lungo i secoli trascorsi. Questo vuol dire che e’ agli Stati, cioe’ ai poteri pubblici, che spetta di creare le condizioni che permettano di liberarsi della minaccia di queste catastrofi.

(articolo pubblicato sul quotidiano Le Monde del 29/03/2017)