Residenze sanitarie assistenziali (RSA). L’equivoco di una solidarietà intergenerazionale impossibile e la soluzione del mercato
“Solidarietà intergenerazionale” è una di quelle locuzioni che mi creano forte diffidenza. Nobile, per carità, ma se la guardo dal punto di vista dello Stato mi pare di sentire l’eco di un ghigno di fondo… un pò come quando si esalta all’eccesso il valore del volontariato. Nobilissimo, ma se finisce per sostituire funzioni essenziali prima a carico dello Stato – o che riteniamo debbano essere dello Stato – allora l’approccio cambia. Non che sia una fautrice di un assistenzialismo paternalista statale, ma è importante chiamare le cose con il proprio nome, e assumersene anche le relative responsabilità politiche.
Mi riferisco ad un tema a noi caro, del quale ci occupiamo da anni combattendo una faticosa battaglia nella quale la controparte è lo Stato variamente declinato: norma statale, pubblica amministrazione, consorzi di comuni e Asl ecc ecc.: l’accesso pubblico ai servizi sociosanitari (Residenze Sanitarie Assistenziali fra tutti) per persone anziane non autosufficienti e disabili gravi.
Il nostro contendente millanta grande attenzione e improbi sforzi economici nel welfare per le persone non autosufficienti (e organizza stucchevoli cene di Natale in alberghi a tante stelle con cucina di chef stellati e così ritiene di aver pagato il suo doveroso tributo al nonno), quando in realtà, ben consapevole della insufficienza di servizi resi rispetto alla domanda, scarica la spesa sul singolo e sulla sua famiglia.
Noi ne facciamo questione di legalità: o lo Stato garantisce – come promette – l’accesso a chi ne ha bisogno oppure ammetta, politicamente prima e normativamente poi, che non è sua intenzione garantire la necessaria (e ingente) copertura finanziaria, e allora ognun per sè e Dio per tutti.
Ma una simile candida ammissione sarebbe considerata politicamente “inopportuna”, e allora questo complesso apparato burocratico e finanziario che semplificando continuerò a chiamare Stato si appella ai sentimenti nobili, e chiama in ballo la solidarietà intergenerazionale.
La questione demografica
L’analisi della composizione anagrafica italiana ci costringe a interrogarci sul nostro sistema di welfare, sulla sua composizione, sulla sua (in)sufficienza in termini di quantità delle prestazioni rese e a chiederci se le risorse economiche investite possano essere ritenute sufficienti.
Negli ultimi trent’anni il numero di ultrasessantacinquenni in Italia è cresciuto fino ad arrivare al 20,3% della popolazione (in Europa siamo secondi solo alla Germania), abbiamo la percentuale di ultraottantenni più alta di Europa (6%) e per i prossimi 50 anni si prevede che addirittura il 55% della popolazione sarà ultrasessantacinquenne (Rapporto Auser sulle condizioni sociali degli anziani in Italia).
La crisi economica e l’impossibilità di affidarsi alla solidarietà intergenerazionale
Accanto all’analisi demografica c’è poi un’altra valutazione da fare sull’andamento economico in questo momento storico. Attualmente il sistema si sta reggendo in buona parte sulla solidarietà intergenerazionale dei genitori verso i figli: i genitori, con le loro pensioni, stanno fungendo da ammortizzatore sociale di emergenza al reddito dei giovani grazie alla stabilità degli introiti che percepiscono.
Se questo è il quadro nel quale ci muoviamo possiamo concludere che ad oggi il sistema di welfare per sostenere la non autosufficienza ha fallito. Cercheremo di analizzare le singole componenti di questo fallimento, ma prima occorre intendersi sul significato di fallimento, cioè l’incapacità di creare un equilibrio soddisfacente fra spesa pubblica e spesa privata, affinchè il sistema possa in sé essere sostenibile. Partiamo dalla scelta politica di fondo – tradotta in norma – scelta che è equivocamente formulata. Da un lato, c’è un apparato normativo che assicura le prestazioni sociosanitarie residenziali per ultrasessantacinquenni non autosufficienti e disabili gravi – incluse fra i Livelli Essenziali di Assistenza – il che ci porterebbe a dedurre che la scelta politica di fondo sia il riconoscimento della necessità di tali prestazioni per la società.
Sempre l’apparato normativo ripartisce poi la spesa di tali prestazioni, ritenendo che non possano essere ad esclusivo carico dello Stato, ma che debba esserci compartecipazione dell’utenza. E fin qui tutto torna. Quando il meccanismo salta, salta perchè le prime due corrette premesse non sono effettivamente realizzate, e quando si guarda al meccanismo nella sua concreta attuazione emerge che la benzina che fa andare avanti il motore è l’applicazione del principio solidaristico intergenerazionale al contrario: in caso di insufficienza del reddito della persona non autosufficiente (solitamente anziana) per far fronte alle spese di una struttura sanitaria assistenziali, i figli integrano economicamente il reddito del genitore, in nome della solidarietà intergenerazionale. Nella pratica, il principio di solidarietà intergenerazionale viene applicato in due modi:
· limitazione dell’accesso ai servizi
· in caso di accesso, limitazione alla compartecipazione economica pubblica.
Questi i due aspetti sui quali ci soffermeremo con una breve, ovvia, chiosa: la solidarietà intergenerazionale non può essere nello stesso momento attuata bidirezionalmente, dagli anziani ai giovani e viceversa. E con una chiave di lettura abbastanza evidente: al centro delle varie querelles giurisprudenziali, delle modifiche normative turbolente degli ultimi tre anni, il vil denaro, cioè se i costi delle RSA debbano essere a carico degli assistiti e delle loro famiglie oppure a carico della collettività e in che misura. Si tratta quindi della solita vecchia storia della coperta troppo corta, poichè il costo in sè dei servizi è molto alto, 3.300 euro circa al mese.
L’accesso alle prestazioni e le liste d’attesa. Privato in forte espansione
C’è carenza di posti letto, ce ne sono circa 240.000 per una domanda che è pari al doppio, questo il fabbisogno attuale. L’accesso alle RSA tramite i servizi sociali ad oggi non è considerato un diritto pieno, ma finanziariamente condizionato (cioè limitato alle risorse economiche stanziate) e le somme pubbliche destinate a questi servizi sono ampiamente insufficienti. Di qui la creazione di liste d’attesa lunghissime. Ma nell’attesa che la lista scorra, chi paga? Il singolo e la propria famiglia, privatamente.
Di conseguenza, siamo davanti ad un mercato privato in forte espansione. Crescono gli investimenti e i fatturati delle RSA con incrementi del 150% e con una forte penetrazione di investimenti stranieri, di multinazionali e di fondi di investimento. I costi medi delle strutture private sono fortemente variabili (si va dai 650 agli oltre 3.000 euro al mese), a seconda della collocazione geografica della struttura (nord/sud, centro urbano/aree periferiche di provincia) e sempre più spesso si trovano strutture il cui costo complessivo è pari alla quota sociale. Quindi, per certi versi, il mercato può forse dare alcune risposte perchè è chiaro che se il costo del privato è uguale o inferiore a quello della quota sociale il problema è meglio gestito.
Potrebbe essere una soluzione, ma occorre allora una verifica attenta sulle strutture e sulle condizioni del servizio reso, per evitare casi come quelli riportati dalla cronaca nazionale – e stigmatizzati nella relazione finale della Commissione Parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale – di strutture lager (cibi e medicinali scaduti, malnutrizione e maltrattamenti perpetrati ai danni di persone anziane, personale senza le necessarie qualifiche) o casi, parimenti frequenti, di strutture “sommerse” (Rapporto Auser “Le case di riposo in Italia”). In questo modo, comunque, l’intero settore resta a totale carico del cittadino e dei suoi familiari e si attua pienamente il principio di solidarietà intergenerazionale…
L’inaccessibilità del servizio pubblico, l’arretrare del pubblico dal settore welfare per la non autosufficienza favorisce quindi l’espansione del mercato privato, in un panorama di domanda in costante crescita e di concorrenza che favorisce l’abbassamento dei prezzi. Ma siccome non si tratta dell’acquisto di un’auto o di un frigorifero quanto piuttosto di servizi fondamentali resi a categorie di soggetti particolarmente fragili, è indispensabile che lo Stato intensifichi i controlli sulle strutture.
La limitazione alla compartecipazione economica pubblica in caso di accesso al servizio
L’intervento pubblico è ulteriormente limitato quando l’utente riesce ad accedere alla struttura tramite i servizi sociali, con riferimento alla determinazione della quota sociale dovuta dall’utente.
La normativa nazionale prevede che, in caso di accesso alle strutture residenziali per persone non autosufficienti tramite i servizi sociali, metà dell’importo dovuto sia pagato dal servizio sanitario (quota sanitaria) e l’altra metà dal Comune di ultima residenza (quota sociale) con la compartecipazione dell’utente. Le modalità di compartecipazione dell’utente sono state – nel corso degli ultimi quindici anni – variamente determinate. Sinteticamente, questa la cronistoria delle norme in materia:
– anno 2001: la quota sociale dovuta dall’utente deve essere determinata in base alla situazione economica dello stesso, valutata secondo i parametri ISEE;
– anno 2015 (d.p.c.m. 159/2013): nell’ISEE dell’assistito vengono computati anche i redditi non imponibili ai fini Irpef (ad esempio le indennità di accompagnamento) e una porzione di reddito dei figli non inclusi nel nucleo familiare. Si applica una franchigia di 7.000 euro annui;
– anno 2015 (parziale annullamento del d.p.c.m. 159/2013 da parte di Tar Lazio e Consiglio di Stato): nell’ISEE dell’assistito non devono essere computati i redditi non imponibili ai fini Irpef (ad esempio le indennità di accompagnamento. Si applica una franchigia di 9.500 euro annui;
– anno 2016 (legge 89/2016): viene eliminata la franchigia, sostituita da un demoltiplicatore dello 0,5.
Il fil rouge è l’ampliamento fittizio del reddito dell’utente in modo da escludere la partecipazione economica del Comune (per legge primo obbligato al pagamento), coinvolgendo economicamente i parenti chiamati a contribuire in nome di un obbligo alimentare illegittimamente tirato in ballo dai servizi sociali e in attuazione del principio di solidarietà intergenerazionale di cui sopra, che però – ad oggi – non è “legge”.
La scelta politica sottesa è chiara, le politiche sociali e le esigenze delle persone non autosufficienti devono cedere il passo alle esigenze di bilancio; ma chi paga oggi 17.000 euro l’anno per la degenza di un solo genitore in RSA, anche contraendo finanziamenti, domani non avrà le risorse per fare altrettanto per se stesso ne’ le avranno i suoi figli. I nodi verranno al pettine, ma saremo sempre in tempo per dar la colpa “a chi ci ha preceduto”. La guerra sulla ripartizione dei costi dei servizi sociosanitari per persone non autosufficienti dimostra la totale mancanza di un approccio sistematico e lungimirante all’intero settore e l’inadeguatezza del sistema attuale a disciplinare in modo sostenibile. Potremmo continuare così all’infinito, ma resterebbe una battaglia persa per tutti, utenti in primis.