La produzione della Natura
Siamo abituati a credere che la natura sia naturale. Invece è prodotta. Sembra un paradosso, ma dal 1984, anno di pubblicazione del libro “Uneven development: nature, capital and the production of space” del geografo scozzese Neil Smith l’espressione ha assunto un senso pieno, per quanto contro-intuitivo e anche dibattuto. La natura è socialmente prodotta, nel senso che è progressivamente un artefatto prodotto in base al modello culturale della società. Ad ogni livello, dallo stato dell’atmosfera alla genetica il carattere materiale della nostra vita quotidiana dipende sia da una manipolazione intenzionale, volta al controllo di quantità e qualità della produzione, sia da una non intenzionale causata da milioni di impatti provenienti dalle attività produttive e di consumo.
Si pensi a cose complesse come la produzione di OGM per avere più derrate alimentari all’uso (banale ma quotidiano) di uno spazzolino per i denti, di un deodorante, di un abito in fibra sintetica e quant’altro. Perfino il paesaggio è il prodotto della cultura di una popolazione che ci si specchia e ci si identifica. Pure le foreste, almeno in Italia e in Europa, sono il prodotto di piantagioni artificiali, come le vigne e i pascoli per le pecore.
Non pare ci sia bisogno di andare oltre con gli esempi, ma occorre ricordare un fatto. La produzione di natura è cominciata molto tempo prima che il modello capitalistico prendesse il sopravvento. Il carattere specifico del capitalismo non è la modifica della Terra-Natura, ma la produzione di uno sviluppo ineguale tra società sparse nel globo. Questo, semmai, è il punto della questione: il capitalismo produce inevitabilmente inuguaglianze sociali. Con conseguenze devastanti ma anche ironicamente invisibili ai più.
Prendiamo ad esempio proprio le foreste. Se lo Stato – magari sull’onda di spinte sociali ambientaliste – è in grado di porre dei vincoli non commerciali ai boschi, invece di continuare a favorirne l’uso produttivo, questo fatto causa – inevitabilmente – una maggiore estrazione di legno dalle foreste fuori dei confini nazionali. Si risparmiano i nostri boschi per farli diventare più belli e si tagliano le foreste ricche ma sconosciute, o conosciute solo solo tramite cinema e televisione. Chiedere a Bolsonaro per questo, senza credere che lo scadente presidente brasiliano sia il solo al mondo a tagliare boschi. Molti altri tagliano foreste vergini per vendere legno pregiato e piantare erba per ruminanti di cui l’umanità non sembra sazia. Come dire: la produzione della natura ha scala globale e interessa ormai tutti i paesi per il tramite dei mercati, anima e motore del capitalismo.
Fin qui gli aspetti materiali.
Su un altro piano, simbolico, con l’espressione produzione della natura si fa riferimento ai modi con i quali le idee sulla natura sono prodotte dal sistema socioeconomico, sempre attraverso le istituzioni del mercato e delle relazioni sociali. La tesi di un uso strumentale e utilitaristico delle risorse della Terra non è nuova, ma l’osservazione che il modello capitalistico abbia accelerato l’evoluzione ha un suo preciso significato. Che è quello che le relazioni sociali sottostanti al modello abbiano diffuso e affermato l’idea che il valore della natura sia misurabile con il meccanismo del mercato, cioè tramite i prezzi, e quindi che sia valutabile in moneta. Secondo questo paradigma, una specie biologica, un ecosistema, si deve conservare se il valore attualizzato di costi e benefici è positivo.
Ci sono voci dissenzienti, ovviamente. Si va diffondendo l’idea che non tutto il valore della natura sia misurabile in moneta (peggio: che questa valutazione non sia etica), ma gli economisti insistono con l’idea che le decisioni guidate dai segnali di prezzo siano più facili da prendere e pertanto più fondatamente consapevoli.
La tesi che la natura sia un prodotto ci dovrebbe aiutare a capire bene che il mondo in cui viviamo è un ibrido co-prodotto dalla natura stessa e dall’umanità e che, fosse anche solo per questo, la presenza di uomini e donne sulla terra è un fatto naturale. La natura è inevitabilmente anche cultura e basterebbe prendere coscienza di questo per iniziare a smettere di contrapporre naturale e artificiale (sinonimo di innaturale) e comprendere l’essenza intrinsecamente politica della gestione delle risorse che ci permettono di stare al mondo.
* Gian Luigi Corinto, geografo, consulente Aduc
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