La sofferenza prima o poi deve finire
Chi lo vuole, dovrebbe poter porre fine alla propria vita: Markus Reutlinger, 65 anni, assiste coloro che decidono di compiere quel passo; ed è un compito che lo assorbe molto. Qui di seguito racconta:
La spina dorsale di una donna affetta da osteoporosi nel giro di un anno si ruppe otto volte, e alla fine i medici versarono del gesso in alcune vertebre; a lei non rimasero altro che dolori insopportabili, giorno e notte. In un uomo con un cancro allo stomaco e all’intestino, l’intestino si svuotava solo attraverso la bocca e il naso poiché tutte le altre vie erano ostruite da ulcere. Queste due persone si auguravano un’unica cosa: poter concludere la vita con dignità.
Da maestro e psicologo mi sono sempre sforzato di ascoltare le richieste delle persone e di contribuire a trovare soluzioni alle crisi. Per dieci anni mi sono occupato del trattamento delle tossicodipendenze e mi sono interrogato sulla vita e la morte fino al limite del sopportabile; ho sperimentato come muore gente giovane. In una fase successiva mi sono dedicato alla terapia famigliare e alla formazione scolastica. Con la morte mi sono nuovamente confrontato quando sono morti mia madre e i miei suoceri a breve distanza.
Quattro domande stringenti nella fase preparatoria
Sono membro di Exit Svizzera da tanto tempo. C’è scritto anche nel mio testamento biologico -sono un appassionato motociclista e voglio impedire che mi si tenga in vita in stato d’incoscienza con i macchinari. Alcuni anni fa lavoravo per Exit come responsabile di un seminario, e un membro del consiglio direttivo mi chiese se volessi impegnarmi nell’assistenza a chi sceglie di morire. Nel periodo di formazione ho accompagnato per un anno soci esperti di Exit nel loro compito, alla fine ho superato un esame d’idoneità all’Università di Basilea. Dall’ottobre scorso sono accompagnatore abilitato al suicidio assistito; lavoro, così come i miei colleghi, a titolo onorifico.
Ogni episodio è preceduto da una procedura intensa che può durare settimane o mesi. In quel lasso di tempo discuto di alternative con chi desidera morire, e cerco di chiarire bene quattro punti: è una persona con capacità di giudizio? il desiderio di morire è stato ben ponderato? il desiderio di morire è costante? c’è qualcuno che fa pressione? Nei casi dubbi coinvolgo esperti in psichiatria, medicina o altre specialità. La famiglia e gli amici, così come il medico di famiglia, sono comunque coinvolti nei chiarimenti. Al termine redigo un rapporto per Exit.
Accompagnare qualcuno a morire è un continuo confrontarsi. In un dibattito televisivo, l’abate Martin Werlen diceva che dietro a ogni dolore legato al morire c’è una benedizione. Io penso che in una sofferenza grave e senza prospettive arriva un momento dove non c’è più nessuna benedizione. Una fine deve pur esserci. Eppure, fin dalla mia prima esperienza di assistente al suicidio, c’è da sopportare l’intensa emozione di quel momento e imparare a gestirla. Esiste un pensiero che m’accompagna ogni giorno come un mantra: non si tratta di me, si tratta di un mio simile sofferente che desidera morire. Io lo assisto e accetto la sua decisione.
L’elaborazione è importante per mantenermi sano. Esprimo temi intimi e immagini in forma di plastici di ferro. Si tratta di costruire e di staccarsi -ho già esposto delle sculture che poi ho buttato via. Comunque alcune sono rimaste, come quelle alla stazione di Huentwangen. L’altra cosa importante sono le passeggiate con il mio cane.
Ho scritto un libro che è una parte della mia elaborazione del vissuto. Descrivo l’accompagnamento alla morte nell’anno della mia formazione, le crisi che ne sono scaturite, rifletto sulle diverse storie, penso alla dignità, alla vita, al morire, alla morte. Dovremmo occuparci di più della morte, poiché è parte della vita. Volevo mostrare che cosa significhi, nel concreto, l’assistenza alla morte scelta. Non nuoce alla discussione sulla libera morte, che è stata sollevata ed è in corso. Il manoscritto è finito, ora cerco un editore.
Molti parenti dopo sono grati
Se dopo tutti i colloqui preparatori e i chiarimenti qualcuno si decide definitivamente a compiere quel passo, l’interessato stesso telefona a Exit: “Ecco, ora vorrei una data”. Il servizio predispone due fascicoli, uno per l’ufficiale sanitario e uno per la polizia. Dopo andiamo dall’interessato. Come per tutta la procedura eseguita prima, lavoriamo con un registro su cui si riporta minuziosamente come si svolge nella realtà l’assistenza al suicidio. Di solito ci sono anche i parenti, c’è un’atmosfera familiare. La persona che sta per morire prende congedo e, a seconda del proprio temperamento, compie l’ultimo passo agitandosi oppure serenamente -ma la lotta e gli interrogativi sul morire sono già alle spalle da un pezzo. Prende un calmante per lo stomaco e dopo poco la medicina per morire; a ogni passaggio le si chiede prima se ne sia sempre ancora convinta. Poco prima dell’assunzione del farmaco letale l’individuo avverte una grande stanchezza, e dopo un po’ s’addormenta.
Un mese più tardi, se i parenti lo hanno desiderato, m’informo su come stanno. Spesso ricevo lettere piene di gratitudine, magari proprio da coloro che inizialmente avevano più remore. La libera morte è preceduta da un lungo processo e da una lunga sofferenza. Dopo il decesso c’è riconoscenza e dolore. Alla fine il lutto viene elaborato nonostante tutta la disperazione e tutta la rabbia che ci possono essere state. Si arriva al completamento di una vita, a prendere respiro. Il tempo del dolore è terminato. Il quadro è compiuto.
(racconto curato da Christoph Haemmann per Beobachter del 23-03-2011. Traduzione di Rosa a Marca)