Aiuto del medico a morire
In Germania l’eutanasia attiva è vietata per legge, e anche l’assistenza al suicidio -che legalmente resta impunita- è professionalmente vietata ai medici da una controversa delibera adottata nel loro ultimo Congresso (Aertzetag). Diversa la situazione in Olanda e Belgio, dove l’eutanasia attiva è ancorata saldamente alla pratica medica. Un sondaggio attuale mostra che il 40% dei medici belgi ha ricevuto una richiesta d’intervento eutanasico, mentre in Olanda l’anno scorso 3.136 persone gravemente malate si sono fatte sopprimere da un medico -quasi il 20% in più dell’anno prima. E un rapporto rileva che i medici estendono sempre di più le norme che regolano l’eutanasia.
Qualche tempo fa, la rivista tedesca Die Zeit ha riportato un caso accaduto in Belgio. Una donna di 43 anni, colpita da ictus, si è fatta sopprimere appena un anno dopo. Soffriva di disturbi agli occhi ed era bisognosa di cure, però poteva camminare, sentire e comunicare. Il caso ha suscitato scalpore soprattutto perché contemporaneamente ha donato gli organi. In pratica, è stata fatta morire in sala operatoria e subito dopo hanno proceduto all’espianto.
Il medico palliativista Michael de Ridder si è pubblicamente espresso a favore dell’assistenza del medico al fine vita ancorché in una cornice rigorosa, e si è detto contrario al divieto stabilito dal Congresso dei medici tedeschi. Lui stesso ha aiutato un suo amico gravemente malato a porre fine ai suoi giorni. Ma nell’intervista spiega perché respinge le modalità praticate in Belgio e Olanda.
D.Spiegel online: Le cifre olandesi e belghe rafforzano la sua convinzione che anche in Germania ci sia bisogno di un’assistenza medica a morire?
R.de Ridder: Sono certo che questo bisogno d’aiuto medico sia esiguo in Germania, e che potrà ancora diminuire se provvederemo a informare meglio i pazienti terminali e la comunità medica riguardo all’offerta di cure palliative. I dolori della maggioranza dei malati di cancro in fase terminale possono essere dominati in maniera legale dalla medicina palliativa con antidolorifici e calmanti. In questo modo il paziente può morire in una sorta di narcosi profonda. Nonostante ciò, rimane una piccolissima parte di malati incurabili su cui le procedure palliativiste falliscono, oppure certi pazienti le rifiutano perché non vogliono rinunciare alla possibilità di stabilire loro il momento della propria morte e di averne il controllo. Anche ai medici tedeschi dovrebbe essere lasciata la possibilità d’aiutare a morire questi malati.
D. Lei riesce a capire e a condividere la decisione dei medici belgi d’aiutare a morire la donna di 43 anni, oppure pensa che sia stato superato decisamente il limite?
R. Non riesco a comprendere né la decisione della giovane donna né quella dei medici, e tanto meno approvarla. Secondo me, lì il confine è stato ampiamente superato. Il caso mostra quanto la giustificata richiesta di morire di un malato terminale che non risponda più alle cure convenzionali, possa essere ridotta a cattivo servizio in circostanze diverse. A me sembra soprattutto carente l’interpretazione dello stato in cui si trovava la donna. In che cosa consisteva quel suo dolore eccessivo? dopo aver avuto l’ictus, cosa ha fatto in particolare per tornare alla vita di prima? cosa le è stato offerto al di là della semplice riabilitazione? quanto si sono prodigati parenti e amici per sostenerla? Già la risposta su come trascorresse la giornata -che stava seduta in poltrona e s’annoiava- indica che non è stato fatto tutto il possibile per tenerla in vita. Al contrario, è indispensabile che il medico disposto ad aiutare a morire, non solo sia convinto dell’autenticità della richiesta del paziente, ma anche che non ci siano alternative. La mia impressione è che la volontà di morire della giovane donna fosse piuttosto la classica richiesta d’attenzione e che avesse il carattere di desiderio d’essere curata, come accade spesso con le persone a rischio suicidio. Secondo me, in questo caso il compito dei medici sarebbe stato d’impedire un suicidio piuttosto che d’aiutare a morire.
D. Il caso è abbastanza scottante poiché nello stesso tempo ha donato gli organi. Secondo lei, combinare l’eutanasia attiva con la donazione degli organi è accettabile?
R. Oggi, in Germania, prima di prelevare un organo bisogna accertare la definitiva morte cerebrale. La diagnosi di morte cerebrale e il prelievo di organi sono due fatti nettamente distinti. Di norma, vengono mantenute le funzioni circolatorie, in particolare il cuore batte ancora e il sangue irrora tutti gli organi (fino al cervello). Ma nell’eutanasia attiva la morte subentra perché si blocca il sistema circolatorio, in definitiva per arresto cardiaco. In questo caso non si può aspettare la dovuta diagnosi di morte cerebrale poiché gli organi non potrebbero sopravvivere. Essi devono essere prelevati immediatamente dopo l’arresto cardiaco e trapiantati in fretta, cosa ammessa in alcuni Stati. Questi donatori sono chiamati “non heart beating donors“. Succede allora che nel paziente non ancora morto -oltre tutto rianimabile- vengano espiantati uno o più organi. La morte definitiva avviene, in senso stretto, solo dopo il prelievo degli organi. Fino a quando non si pervenga a una nuova definizione di morte, che si discosti dal concetto vigente di morte cerebrale, il procedimento sopra descritto non sembra essere moralmente giustificabile.
D. Come fa il medico a decidere se sia giusto aiutare un paziente a morire?
R. L’aiuto medico a porre fine alla vita del paziente è, senza eccezioni, un atto estremamente individuale. L’esecuzione dev’essere preceduta non solo da una decisione espressa in modo chiaro e durevole dal malato; è imprescindibile che si sia fatto tutto il possibile per familiarizzarlo con le possibilità offerte dalla medicina palliativa. Alla fine il medico deve giungere alla convinzione interiore -presa di coscienza- che in quel particolare caso l’aiuto è giustificato, o addirittura dovuto. Questo il medico lo può fare solo se conosce a fondo il paziente e viceversa.
D. In un rapporto olandese si legge che adesso i medici accettano come motivo per aiutare a morire, non solo malattie a serio rischio di morte come il cancro, ma anche disturbi legati alla vecchiaia, per esempio la sordità o la cecità. E alcuni si prodigano affinché l’assistenza a morire venga applicata anche quando compare la demenza. Come giudica questo sviluppo?
R. E’ fatale. E nasce il sospetto che proprio ai vecchi più fragili non venga fornita l’attenzione e l’umanità che sarebbero necessarie. Ma anche qui è importante la conoscenza profonda del singolo caso prima di dare un giudizio. Per esempio, per un pittore la cecità può rappresentare un vulnus profondo e sensibile al suo progetto di vita e al senso della propria esistenza. Il desiderio di morire diventa perciò plausibile e accettabile se prima è stato chiarito, in modo convincente, che quel desiderio è persistente e non influenzabile.
D. Come si può impedire che il confine entro cui i medici possono aiutare a morire non venga continuamente spostato in avanti?
R. Questo rischio lo vedo se la medicina palliativa non si rafforza, se non si stabiliscono criteri chiari rispetto all’assistenza al fine vita, e se quei criteri non vengono tenuti sotto stretto controllo. Proprio quest’ultimo aspetto pare essere un problema in Belgio. Un’indagine sul British Medical Journal mostrava, nel 2007, che nelle Fiandre solo uno su due dei circa mille casi d’eutanasia attiva fosse noto alla commissione di controllo. Inoltre, bisogna che il medico disposto a praticare l’eutanasia -libero da preconcetti e da pressioni- si faccia consigliare, magari da una commissione istituita ad hoc dall’Ordine regionale dei medici.
D. Come se l’immagina una regolamentazione dell’aiuto a morire per la Germania?
R. Per prima cosa vorrei che la decisione del Congresso dei medici tedeschi, di proibire in modo assoluto l’assistenza al suicidio, venga rimosso e trasformato in una moratoria. E’ evidente che bisogna ancora discuterne a fondo. Quanto meno, tutti i sondaggi fatti ai medici tedeschi rilevano che il 30-40% degli intervistati preferisce una nuova normativa al divieto generalizzato, e che ritiene accettabile partecipare al suicidio medicalmente assistito.
(intervista di Veronika Hackenbrock per Der Spiegel del 06-11-2011. Traduzione di Rosa a Marca)