L’eutanasia e i Giochi paralimpici di Rio
L’atleta belga Marieke Vervoort ha aggiunto un linea alla sua gia’ ricca collezione, ottenendo questo fine settimana, la medaglia d’argento dei 400 m, la prima del suo Paese, ai giochi paralimpici di Rio de Janeiro. A 37 anni possiede gia’ tre titoli mondiali, una medaglia d’oro olimpica e ormai due medaglie d’argento, prima della prova dei 100 metri, la settimana prossima.
Questa sara’ la sua ultima gara, come lo ha gia’ detto prima delle gare all’agenzia Belga. La malattia degenerativa muscolare incurabile con la quale vive da quando e’ adolescente, si e’ aggravata e le impedisce di continuare i rigorosi allenamenti necessari alla pratica dello sport ad alto livello: “La mia malattia degenerativa progredisce e non c’e’ alcuna possibilita’ che possa migliorare (…). Io sento che il mio corpo non ne puo’ piu’. Adoro essere sulla mia sedia, ma io perdo spesso coscienza durante gli allenamenti grazie al dolore. Il corpo mi dice: fermati!”.
Molto prima dei Giochi Olimpici, Marieke Vervoort aveva fatto conoscere i propri progetti di vita dopo la carriera sportiva: viaggiare, scrivere un secondo libro, poter aprire un museo per raccontare la sua storia. E, quando le sofferenze non saranno piu’ sopportabili, e che il suo corpo sara’ prossimo alla rottura, si fara’ eutanasizzare.
“L’eutanasia per me non vuol dire morte”
A Rio, dove si e’ ricreato un microcosmo del mondo intero nel momento della competizione, il suo percorso, le sue performance sportive, le sue medaglie sono state discusse nell’ambito di questa decisione presa da diversi anni, coraggiosa per alcuni, scioccante per altri. “La materia difficile dell’eutanasia l’ha proiettata in una luce intensa in cui lei sembra trovarsi a proprio agio”, scrive il giornale Le Soir. Pertanto, piu’ Marieke Vervoort parla con facilita’ della materia, argomenta la propria scelta con il sorriso, ecco che ritorna il simbolo e il campo semantico che abitualmente contorna questa parola, eutanasia. Lei non e’ una parola che associa alla morte, ma alla vita.
“Tutto il mondo sa che io ho fatto tutte le carte necessarie per un’eutanasia nel 2008. Se non le avessi ottenute, mi sarei suicidata gia’ da molto tempo…”. L’eutanasia non vuol dire morte per me, ma significa riposo. Io vi ero molto concentrata, molto prima di queste carte per l’autorizzazione. In Belgio, la cosa e’ lunga, difficile per ottenere le autorizzazioni necessarie. Bisogna passare attraverso un’accurata indagine. Non si trovano queste carte in un negozio. Io spero che il mio caso dimostri che l’eutanasia possa assicurare la serenita’ ed anche contribuire ad allungare la vita. Io spero che questo ispirera’ altri Paesi ad introdurre questa legislazione”.
L’eutanasia e’ attualmente legale in Belgio, con certe condizioni strette, dal 2002 (e’ legale anche nei Paesi Bassi e in Lussemburgo). Circa 1.500 belgi scelgono di morire in questo modo ogni anno, nella maggior parte dei casi malati di cancro e, rispetto ai dati del 2013, alcune vittime di problemi psichici solo per il 5% dei casi complessivi.
“Quando il momento verra’…”
Questa “materia sociale” rimane mal compresa e spesso e’ un tabu’. A Rio, Marieke Vervoort, ha dovuto dare dimostrazioni di pedagogia di fronte alle domande della stampa mondiale che vuole sapere perche’, come e quando. Il giorno dopo della sua medaglia d’argento, il comitato paralimpico belga si e’ sentito costretto ad organizzare una conferenza stampa perche’ l’atleta dicesse, tra l’altro, che lei non aveva mai voluto praticare questa procedura medica subito dopo i Giochi Olimpici, uno scenario che alcuni media, come un film, si erano impegnati a scrivere.
“Dovunque nel mondo si pensa che pratichera’ l’eutanasia il mese dopo i Giochi. Non e’ assolutamente cosi’. Questo deve essere rettificato (…). Quando il momento verra’, quando si avranno piu’ giorni cattivi che giorni buoni, io avro’ sotto mano le mie autorizzazioni per l’eutanasia”.
Per il momento, lei pensa soprattutto alla “ultima volta che prendera’ posto nella sua gara”. Dopo “ci sara’ qualcosa per rimpiazzarla”.
“Io credo che va fatto un discorso sulla motivazione. Perche’ non lo faro’ fuori del Belgio? Io spero di ispirare molte persone con la mia storia”.
(articolo di Luc Vinogradoff, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 12/09/2016)